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8 settembre 1905:  il Terremoto che sconvolse il Vibonese!

La nostra Regione collocata nel cuore del Vesuvio, dello Stromboli e dell'Etna

di Felice Muscaglione

Cronistoria dei terremoti in Calabria e nel Vibonese

   La Calabria come il resto delle Regioni del Sud è la terra dei terremoti per eccellenza. La sua posizione geografica la colloca nel cuore di tre grandi vulcani: il Vesuvio apparentemente spento, lo Stromboli e l'Etna in continua eruzione. Tale posizione rende il suo suolo, da sempre, costantemente in movimento e soggetto ad una miriade di piccole e forti scosse sismiche che nei secoli passati hanno modificato profondamente finanche la sua superficie terrestre dando origine a laghi, fiumi, colline e cancellato una infinità di paesi.

   Dalle ricerche effettuate è possibile constatare che i grandi movimenti tellurici si sono verificati in media una volta ogni cento anni. A tal proposito ho voluto tracciare una mappa non circostanziata dei terremoti avvenuti in Calabria sin dagli albori della sua storia.

   Gli antichi storiografi greci Strabone, Duris di Samo e tanti altri, ci riportano solo avvenimenti storico-religiosi del loro tempo, ignorando, invece i fatti di cronaca provocati da fenomeni naturali come i terremoti. Poche, comunque, sono le notizie di eventi sismici che hanno investito la Calabria e la Sicilia nel III, II e I secolo a. C. Esse risalgono al periodo romano e sono rintracciabili negli scritti di Livio, Marco Tullio Cicerone ed anche Tacito, Seneca e Plinio. Questi ultimi due descrissero con molta dovizia e ricchezza di particolari il terrificante sisma che distrusse nel 68 d. C., la città di Pompei.

   Lontane e frammentarie notizie di un grave sconvolgimento tellurico che distrusse l'intero paese di Nicastro risalgono al 316 d. C. Un'altra traccia importante risale al 968 d. C. quando un forte sisma danneggiò gravemente la città di Rossano. Il 4 febbraio del 1169 una violenta scossa colpì Catania causando la morte di 15.000 persone; in questa circostanza si verificò un violento maremoto - identico allo Tsunami che colpì lo scorso 26 dicembre 2004 le coste dello Sri Lanka -, che distrusse parte della città di Messina nonostante fosse ben protetta da gigantesche mura.

   Il 9 luglio del 1184, Cosenza venne colpita da una forte scossa che causò la morte di migliaia di persone e fece crollare la monumentale Cattedrale Normanna di Santa Maria Assunta provocando la morte dei numerosi fedeli presenti e dello stesso Vescovo.

   Anche il 1200 fu un secolo travagliato da continui terremoti i quali oltre a produrre vittime cancellarono definitivamente gran parte del nostro patrimonio storico-artistico. Nel 1220, venne lesionata gravemente la preziosa abbazia di Santa Maria della Sambucina. Nel 1310, una infinità di terremoti fecero tremare il territorio di Catanzaro e Reggio Calabria. Il 5 dicembre del 1456, la città di Napoli fu fortemente danneggiata e sul suo territorio si contarono 70.000 vittime. Il 1500, fu anch'esso un secolo straziato da continui movimenti tellurici: ricordiamo quello del 1509 e del 1561, che provocarono gravi danni e numerose vittime alle città di Reggio  e Messina. Tra il 1596 e il 1599, continue e violente scosse fecero sussultare l'intera Calabria. Anche il 1600 fu un secolo in cui si verificarono terremoti di notevole entità, i più violenti: nel 1606, poi quello del 20 luglio 1609 che distrusse ancora una volta parte della città di Nicastro. Nel 1626 venne rasa al suolo la città di Girifalco. Il 27 marzo del 1638, un altro violento terremoto, che coincise con l'eruzione dello Stromboli, colpì con violenza l'intera regione provocando 12.000 vittime; molti paesi come Filogaso, Francavilla Angitola, Castelmonardo, Polia, Monterosso e Montesoro, subirono gravi danni. Il terremoto del 1659, del 5 e 6 novembre, causò un enorme numero di vittime e di danni: Mileto fu completamente inghiottita dalla terra con tutte le sue preziose testimonianze normanne, compresa la chiesa della SS. Trinità. Cadde anche il monumentale Convento di San Domenico di Soriano tra le cui macerie morirono nove frati. Il sisma più sconvolgente, fu però quello del 1663, anch'esso coincise con una grande eruzione dell'Etna: in Calabria e nella Sicilia orientale ci furono 100.000 vittime. Il XVII secolo si chiuse con un altro cataclisma che produsse un forte maremoto le cui gigantesche e violente onde colpirono violentemente, l'11 gennaio 1693, ancora Catania e l'intera costa orientale della Sicilia e della Calabria tirrenica provocando decine di migliaia di morti. Anche in questa occasione il mare si ritirò dalla terra per poi abbattersi violentemente su di essa: "...nel porto di Augusta alcune galee si videro mancare l'acqua sotto" - raccontavano gli abitanti di quel posto.

   Dopo quasi un secolo di relativa calma, il 5 febbraio del 1783, la Calabria venne ancora una volta sconvolta da un violentissimo terremoto, forse il più violento della sua storia. A mezzogiorno e mezzo del 5 febbraio, un fragore rimbombante salì dalle profondità della terra e quasi istantaneamente una scossa, "che mai eguale si ricordava", fece traballare il suolo dell'intera Calabria e della Sicilia orientale. La scossa durò due minuti: enorme durata di un terremoto, quanto basta per non lasciare in piedi una sola casa per l'estensione di molti chilometri. In questa tragica circostanza l'epicentro venne individuato nella piccola città di Oppido. Tutti i paesi compresi nel suo raggio furono completamente distrutti. Le potenti scosse telluriche si propagarono a nord sino a Otranto e al sud sino a Palermo. "Il suolo si agitò in tutti i sensi - ricorda il Lenormant nella sua 'Magna Grecia' - ondeggiò come i flutti, si vide in alcuni punti la cima degli alberi abbassarsi sino a terra. La città, i borghi, tutto venne raso al suolo in un attimo; gli alberi vennero sradicati, le fondamenta delle case sembravano vomitate fuori dalla terra". Anche in questa circostanza una violentissima "onda anomala", devastò Scilla e pochi dei suoi abitanti riuscirono a salvarsi. In quel funesto e tragico giorno si contarono ben 40.000 vittime e la distruzione della monumentale Certosa di Serra San Bruno.

   Nel 1800, i terremoti furono fortunatamente lievi; nel 1832 si verificarono a Crotone continue scosse. Altre leggere scosse si susseguirono in Calabria tra il 1870 e il 1892.

   Il 1900 si aprì, invece, con due terremoti di notevole consistenza, quello dell'8 settembre del 1905 e del dicembre del 1908. "Sembrava una calma e tiepida serata, ricordavano alcuni superstiti - quella del 7 settembre del 1905, un sole rosso acceso si spegneva lentamente dietro il mare di Parghelia, illuminando di fuoco lo Stromboli, da giorni in eruzione". "Faceva caldo", ricorda ancora un testimone diretto del tragico evento, che ha voluto essere ricordato con lo pseudonimo di Quasimodo: "ero convinto di trascorrere ancora una volta, la notte in bianco". Il povero uomo neanche immaginava della catastrofe che nello spazio di qualche ora avrebbe sconvolto la sua esistenza e quella di un intero paese. Alle 2,45 della notte dell'8 settembre, un terribile boato seguito da una devastante scossa tellurica devastò i territori di Monteleone e Pizzo, che poi risultarono essere l'epicentro del sisma. Le casette dei paesi circostanti si abbatterono come castelli di carta. Morte, desolazione, paura, smarrimento, erano impressi sul viso dei nostri poveri contadini di Zammarò, Stefanaconi, di Parghelia, di Piscopio, di Cessaniti, Briatico, Zungri, centri rasi al suolo dall'inaudita e imprevedibile violenza della natura che a distanza di 122 anni ritornava a mietere lutti e distruzioni nelle stesse località già duramente colpite dal terremoto del 1783. La scossa fu dapprima sussultoria e quasi in contemporanea ne seguì un'altra ondulatoria e un'altra ancora vorticosa della durata di 28 secondi: un tempo interminabile. Solo parecchie ore dopo il flagello, grazie alla riattivazione del telegrafo e dalle notizie riportate dalla stampa si comprese la consistenza della tragedia che aveva devastato una buona parte del territorio della Calabria centrale mietendo morte e distruzione in tutte e tre le provincie della nostra regione. Rispetto al terremoto del 1783, questo, pur causando meno vittime, fu più intenso, nella estensione e nei danni prodotti. La scossa fu avvertita intensamente finanche a Reggio Calabria creando molto panico ma in quella città non ci furono vittime né danni rilevanti. Altre violente scosse, questa volta di assestamento, aumentarono il panico e la disperazione tra le popolazioni già duramente colpite; ricordiamo quella di domenica 10 settembre delle ore 10,30 e di martedì 12, alle ore 11. Il barone Domenico Paparo, che dormiva nella sua casa di Stefanaconi fu svegliato da un violento sbalzo del suo letto che lo scaraventò contro la porta della sua camera, si alzò con grande fatica e tentò di aprirla senza però riuscirvi; in un momento di lucidità si aggrappò alla parete mentre il tetto e gran parte della struttura muraria si sbriciolò intorno a lui. Prima dei soccorsi, giunsero a Monteleone un gran numero di giornalisti provenienti da ogni parte d'Italia, rappresentanti di una miriade di testate importanti e meno, i quali descrissero con particolare precisione e cruda realtà lo spettrale scempio che si presentò davanti ai lori occhi. Il giornalista Barzini, qualche giorno dopo il disastro, scrive al "Corriere della Sera": "Mentre mi trovo qui, una gran calca si appressa. E' il Re circondato dal popolo, che, lasciata l'automobile percorre a piedi la strada in rovina, e guarda commosso, si leva di tanto in tanto un grido: Viva il Re! Ma non c'è forza di esultanza. Pare che dicano aiuto, tutti quei volti pallidi e tristi. Ad un tratto si ode un rullo di tamburi, cupo, sinistro. E uno strano corteo entra nella città. Sono contadini macilenti. Molti di essi hanno il pittoresco costume calabro. Non gridano, non parlano: levano in alto dei placards, sui quali è scritto "pane e riparo"! - "date pane ai poveri" - "siamo senza riparo!". Alla testa del corteo, dei vecchi contadini, forse antichi tamburini, rullano disperatamente sui tamburi, marcando il passo alla marcia dolorosa e battono e battono, come per un disperato appello: "sono quelli di San Costantino" dice la folla, aprendosi. Ed essi passano, senza nulla chiedere, portando in processione la loro cupa miseria. Il territorio vibonese era così stato ancora una volta duramente colpito dalla violenza della natura: interi paesi, quindi, come Piscopio, Zammarò, Triparni, Parghelia nello spazio di pochi minuti erano stati rasi completamente al suolo. Scene apocalittiche, dunque, che rimasero impresse negli occhi dei nostri poveri e sfortunati concittadini sopravvissuti al terribile cataclisma per il resto dei loro giorni. Auguriamoci che sciagure simili non si ripetano mai più.

Monteleone, distrutta via Forgiari

   Alle 2,45, nel cuore della notte, Monteleone tremò violentemente. Gli abitanti storditi dal sonno e dalla improvvisa paura lasciarono in fretta le loro case e si riversarono nelle piazze e ovunque ci fosse uno spazio lontano dalle case e dai palazzi. Da ogni parte cadevano pezzi di cornicioni e dalla via Forgiari un nuvolone di polvere avvolse in pochi istanti tutta la città. Disperazione, lacrime e urla rendevano ancora più tragico il disastroso evento. In un baleno si diffuse la voce che miracolosamente Monteleone era rimasta ancora una volte illesa alla violenta scossa sismica. Solo una delle sue vie (via Forgiari) l'attuale Corso Vittorio Emanuele III - situata nella parte bassa della città, aveva subito gravi danni: nei giorni successivi i morti estratti dalle macerie furono 7. Un abitante di questa via, qualche giorno dopo ricordava, che: "Riuscì a stento a salvarmi insieme ai miei quattro figli e alla moglie. Ma, non fu facile: aprì la finestra e vidi sprofondare sotto i miei occhi il balcone; mentre cercavo di aprire la porta, vidi il muro opposto traballare, muoversi, come se volesse quasi venirmi addosso chiudendomi ogni via di scampo. Raggiunsi la scala ancora fortunatamente intatta così riuscimmo a salvarci". Quasi tutte le case di Monteleone, quindi, erano rimaste disabitate; la gente dormiva negli orti e nei giardini sotto tende improvvisate. Il terrore di rientrare nelle proprie case perdurò per diversi giorni.

   Dalle testimonianze del tempo apprendiamo che gli abitanti di via Forgiari dormivano sulla paglia, i letti e i materassi erano rimasti nelle loro case rovinate, semidistrutte e pericolanti. Nella notte, illuminata da candele e acetilene, dalle tende si sentivano provenire lamenti e pianti di donne e di bambini, mentre continuavano lievi scosse di assestamento che rinnovavano il panico alla popolazione ancora terrorizzata. Gli aiuti tardarono ad arrivare, anche se la stessa mattina dell'8 settembre partirono da Bari con il treno delle 9,20 soldati zappatori appartenenti all'87° e all'83° Reggimento di Fanteria. Il centro storico, dunque, rimase illeso, ma molti edifici risultarono gravemente lesionati. La maestosa cupola del Campanile di San Michele, già danneggiata dal terremoto del 1783, venne completamente demolita. Il carcere ubicato nell'antico convento degli Agostiniani subì gravissime lesioni; in questa struttura morì un bambino di appena un anno. Il Duomo di San Leoluca subì molti danni: la volta della navata centrale e quella del coro erano spaccate, i lati del tetto rovinati da una miriade di lesioni; le stesse fessure erano visibili sui muri della sagrestia. Anche la chiesa del Rosario fu seriamente danneggiata soprattutto nella volta della navata. La strada di via Forgiari era completamente invasa da pietre e calcinacci; ai due lati le case erano gravemente lesionate, "dei balconi precipitati erano rimaste - ricorda il giornalista Olindo Malagodi - solo le inferriate e le ringhiere". Altre case avevano perduto il cornicione e mostravano le travi dei tetti, le pareti erano gonfie e cadenti.

   Alla disperazione si aggiunse anche la fame! In quei giorni venne improvvisato anche un mercato di frutta e di ortaggi, qualche cittadino siede in piazza davanti al caffè sfogliando giornali locali che riportano quasi tutti l'incredibile ritardo dei soccorsi: mancava tutto medicinali compresi. Il giornalista Pio Schinetti del "Resto del Carlino" attraverso il nostro telegrafo, fortunatamente in funzione, lanciò un accorato appello alle autorità governative: "Se volete fare cose utili, mandate legname, tele cerate, abili carpentieri, qui occorre ricoverare migliaia di persone che hanno le case distrutte".

   Da Napoli il Comitato pro Calabria comunica che è in partenza per il porto di Pizzo il Vapore "Mathias Kiraly" con un carico di 6000 coperte, 1000 materassi, 2000 cuscini, 1500 ceste di pasta, 50 quintali di pane, una botte di vino, 30 sacchi di riso e 5 casse di caffè. Attraverso una circolare il Gran Maestro della Massoneria invita le Logge d'Italia a raccogliere offerte per i danneggiati.

   Le scosse di assestamento intanto continuano incessanti. Il 15 settembre una violenta scossa lesionò la casa di Michele Morelli. Il 17 un'altra scossa di terremoto gettò nel panico la città. Alla stazione di Porto Santa Venere (Vibo Marina), un treno era stato utilizzato a ricovero per le autorità in visita ai paesi terremotati.

   Prima dei soccorsi arrivarono in città le autorità ospitate nel palazzo del Sindaco marchese Diego di Francia. Tra le personalità ospitate ci furono: il cardinale Portanuova, il Ministro di Grazia e Giustizia Finocchiaro - Aprile, rappresentante del Governo nelle zone terremotate e i deputati Squitti e Pellecchi. La situazione dei cittadini peggiorava giorno dopo giorno; mancavano i generi di prima necessità, l'ospedale civile venne chiuso per le gravi lesioni subite, al suo posto furono impiantate delle tende della Croce Rossa fuori la città. Nell'opera di assistenza ai numerosi feriti si prodigarono senza alcuna sosta le suore della Carità. I soldati, intanto, iniziarono a costruire qualche baracca di tavole all'interno della Villa comunale, in Piazza San Leoluca, nelle piazze della città e negli orti di cittadini privati. Per i gravi ritardi del Governo nel prestare i primi e indispensabili soccorsi si rischiò la degenerazione dell'ordine pubblico. Apprendiamo che una delegazione di monteleonesi guidata da un certo sig. Gasparri si recò dal generale Lamberti per chiedere viveri e ulteriori baracche; alla risposta negativa dell'anziano militare lo stesso venne sonoramente fischiato: il generale fece arrestare il Gasparri che poco dopo fu rimesso in libertà. In ogni parte d'Italia nacquero dei comitati pro Calabria, a dire il vero ci fu una rincorsa tra le città italiane per la raccolta di denaro, viveri e indumenti, ma, la distribuzione degli aiuti fu fatta con molta lentezza; le autorità preposte dal Governo si rivelarono incapaci di gestire la gravità di quel difficilissimo momento. La sezione della Croce Rossa di Firenze mandò a Monteleone con una sua rappresentanza un attendamento capace di ospitare 500 persone. Gli aiuti arrivavano, comunque, con enormi ritardi. Nell'Albergo Italia, tra gli altri, presero alloggio: l'On. Canetta, Presidente del benemerito Comitato Milanese pro Calabria, Padre Fulgenzio, Carlo Crocco Eginestra inviato del "Mattino" di Napoli. Il 12 settembre, arrivò alla stazione ferroviaria di Porto Santa Venere, il treno reale con il Re Vittorio Emanuele III, accompagnato da autorità militari e di Governo per effettuare un sopralluogo nelle zone maggiormente colpite dal disastroso terremoto.

   Per protestare contro i gravi ritardi con cui arrivavano gli aiuti, migliaia di cittadini avevano prevaricato il limite della sopportazione. L'inviato speciale della "Tribuna" Olindo Malagodi il 16 settembre telegrafava da Monteleone: "L'irritazione e il fermento della popolazione aumentano. In questo momento mentre mi trovo fuori, sono circondato da un gruppo di persone che mi dicono: la preghiamo di telegrafare la verità al suo giornale, noi siamo 14 impiegati dello Stato alla Prefettura e alla Procura, siamo senza ricovero, dormiamo sotto gli stracci. Mia moglie ora ha abortito, con una terribile emorragia; noi lavoriamo 18 ore al giorno per provvedere alle vittime - siamo vittime anche noi - nessuno pensa a noi! Siamo andati al Municipio e ci hanno rimandati al Comando dove tutto è accentrato. Ebbene, al generale Lamberti abbiamo domandato che ci diano le tavole, che siamo pronti a costruirci noi stessi la baracca, noi siamo pronti a pagarlo! Il generale ci ha accolto in malo modo e, di fronte alla nostra indignazione, ha avuto il coraggio di dirci che metteva a nostra disposizione la caserma donde hanno fatto uscire i soldati perché era piccolissima! La scongiuriamo: faccia arrivare la nostra protesta al giornale. E così faccio e scrivo - dice il Malagodi - pure con grande dispiacere. Ma questa è la terza volta in questo pomeriggio che mi arrivano proteste di questo genere". Comunque, a nove giorni di distanza dal sisma né a Monteleone e né nelle altre località colpite erano state ancora costruite le tanto attese baracche.

Nominativi delle sette vittime di Via Forgiari

Ambrosio Caterina fu Giuseppe, 50 anni; D'Amico Francesca fu Bruno, 43 anni; De Filippis Maria Concetta fu Francesco, 73 anni; Figliuzzi Antonio di Vincenzo, 1 anno; Fiorenza Maria Giuseppa fu Vincenzo, 84 anni; Florenza Aurora di 11 anni; Gambardella Andrea di Vincenzo, 19 anni.

Triparni è un ammasso di macerie

   Monteleone, dunque, rispetto ai gravi danni che il terremoto dell'8 settembre procurò alle case e alle persone dei paesi limitrofi, rimase, possiamo dire, quasi illesa. A Triparni, piccola frazione di Monteleone, nulla rimase in piedi: le case si frantumarono e nessuna di esse sfuggì alla furia devastatrice del sisma di quella terribile notte. La gente, svegliandosi di soprassalto si rifugiò nella campagna vicino all'entrata del paese. Tra i primi a portare soccorso ai feriti fu il parroco del paese don Stefano Ventrici il quale riuscì miracolosamente a salvarsi dalle rovine della sua casa, rasa completamente al suolo.

   All'alba scene strazianti si presentarono innanzi agli occhi increduli della gente. Ognuno cercava i propri cari tra le montagne di pietre e calcinacci, scavando a mani nude e con tutto ciò che riuscirono a trovare tra le macerie. La gente piangeva e gridava il nome dei propri figli, delle madri, dei padri, dei fratelli che non riuscivano più a trovare; anche la localizzazione della propria abitazione era divenuta difficile poiché le case erano crollate l'una addosso all'altra seppellendo 37 persone prevalentemente donne e bambini. A distanza di giorni, il terrore era ancora impresso sui volti tumefatti dei sopravvissuti che invocavano con insistenza pane e medicine. La chiesa parrocchiale era completamente crollata. Per un giustificato effetto psicologico nessuno di loro voleva entrare nel paese ridotto ad un deserto di rottami, di pietre, di resti di suppellettili, di travi annerite dal tempo: come riportavano i giornali del tempo.

   I soccorsi per la demolizione dei resti pericolanti arrivarono con giorni di ritardo; anche le baracche, vitali per la sopravvivenza dei feriti e delle numerose famiglie rimaste senza casa, vennero costruite molti giorni dopo il sisma. E' da sottolineare l'impegno profuso senza alcun limite a favore della popolazione dai giovani seminaristi inviati dal vescovo di Mileto Mons. Giuseppe Morabito. Grazie a loro vennero allestite in tutti i paesi maggiormente colpiti utilissime cucine da campo e lavorarono senza sosta nella distribuzione di minestre calde, pane e anche medicine per i feriti. In quella tragica circostanza la chiesa vibonese con il suo vescovo fu la prima istituzione che portò un aiuto fattivo e concreto alle popolazioni colpite sostituendosi al Governo, resosi latitante per diversi giorni dalla fatidica notte dell'8 settembre.

   Un altro ruolo importante lo svolsero i Comitati pro Calabria costituiti in ogni città d'Italia. Uno di questi e precisamente il "Comitato Livornese" donò a Triparni 22 baracche di legno. Pochi furono i sindaci che protestarono con viva forza alla lentezza ed alla inefficienza del Governo dimostrata nel prestare i primi soccorsi alle popolazioni colpite. Uno di questi fu il Sindaco di Monteleone, marchese Diego di Francia, il quale intervistato dal giornalista Olindo Malagodi, rispose, come si suol dire, senza peli sulla lingua. Questa sua denuncia pubblica gli costò cara: fu dimesso dalla sua carica per ordine del Ministero dell'Interno. Al Sindaco Diego di Francia gli subentrò il dr. Giuseppe De Francesco.

   Proponiamo l'intervista, utile per capire quel grave e difficile momento vissuto dalle nostre comunità. "Qual è, secondo lei, la situazione? - Domanda il giornalista al Sindaco -. Molto grave, molto dolorosa e pericolosa - rispose il Sindaco. E a chi risale la responsabilità, secondo lei? Al Comando Militare! E' il Comando Militare che, accentrando tutto con una burocrazia inopportuna in questo momento, intralcia la nostra azione, ci lega le mani. Vuol saperne una? Il corpo medico aveva redatto una lista di malati gravi che avevano necessità di essere trasportati sotto buone baracche, e sotto buone tende e tolti dagli stracci in mezzo ai quali le loro sofferenze diventavano tanto più gravi. Ebbene il Comando Militare mandò un Tenente per verificare questa lista. Lei comprende che un tale atto di sfiducia verso onorevoli professionisti, che si sono guadagnati la gratitudine universale per il coraggio e l'abnegazione in questi giorni dolorosi, non può predisporre bene il paese. La sfiducia genera sfiducia. Ma le autorità locali, ma la gente del paese ha preparato qualche cosa, ha fatto qualcosa per questi soccorsi urgenti? - Chiede il Malagodi - Ma certo - risponde il Sindaco - abbiamo formato un Comitato composto dalla Giunta a cui sono stati aggregati cittadini onorevoli; abbiamo formato sotto comitati per la costruzione di baracche, per le cucine, per l'assistenza medica e così via. Noi non vogliamo metterci in contrasto, vogliamo semplicemente cooperare, e crediamo che la cooperazione nostra possa essere utilissima, anzi necessaria, perché noi conosciamo il paese, conosciamo la gente.

Nominativi delle 37 vittime di Triparni

Aloisio Anna; Brunetta Francesco; Cacciatore Rosa; Carnovale Domenico; Ceraso Marianna; Colaciuri Luca; Colaciuri Maria Antonia; Corso Caterina; Cutrì Domenicantonio; De Vita Antonino; Evola Rosa; Florio Matteo; Florio Rosario; Frasca Maria Antonia; Gulello Marianna; Iannello Caterina, 36 anni; Iannello Caterina, 8 anni; Iannello Domenica; Iannello Nicola; Iannello Vincenzo; La Rocca Tommasina; Lo Muto Francesca; Lopreiato Vincenzo; Mangone Maria Rosa; Marasco Giovanni; Marasco Maddalena; Messiniti Maria Stella; Moretti Michele; Pannia Santo; Porretta Anna; Prestia Vincenzo; Profiti Antonino; Profiti Felicia; Profiti Maria Antonia; Profiti Maria Teresa; Profiti Serafina.

Piscopio, solo montagne di detriti

   A Piscopio, piccolo centro di 1335 abitanti, la notte dell'8 settembre neanche una casa scampò alla violenta scossa sismica. Sotto le macerie rimasero senza vita 63 vittime in prevalenza donne e bambini; i feriti invece furono 270. Fortunatamente la maggior parte degli uomini si trovava nei campi a guardia dell'uva e del raccolto e il loro tempestivo intervento evitò che il numero delle vittime fosse molto più elevato. Anche l'intervento dei Carabinieri e dei soldati fu, in verità, tempestivo. Nell'opera di salvataggio si distinsero in particolare il Capitano Chiesa e il Brigadiere Pecora, i quali senza indugiare misero a rischio la loro vita per estrarre da sotto le macerie parecchi feriti che altrimenti sarebbero morti per soffocamento. Anche qui, come a Triparni, ci furono scene di disperazione e di panico; i sopravvissuti raccontarono sino al resto dei loro giorni la terribile esperienza vissuta, che si ripeterà - ma con minore intensità e danni - tre anni più tardi nel terremoto del 1908, sisma che distrusse completamente Reggio e Messina.

   I superstiti trovarono riparo sotto le tende costruite alla meglio con lenzuola e coperte all'ingresso del paese. Le case ubicate sul corso Tasca-Lanza rimasero in piedi ma restarono gravemente lesionate e il Sindaco conte Capialbi li fece abbattere. Anche a Piscopio l'impegno della chiesa nel prestare aiuto alla popolazione fu determinante. Il vescovo di Mileto Mons. Giuseppe Morabito fece installare cucine da campo accudite dai suoi giovani seminaristi. Il 12 settembre venne distribuito il pane fatto pervenire metà dal Governo e metà dal Vescovo di Mileto. Il Segretario del Comune sig. Piperno, raccontava che: "Il terremoto ha distrutto tutti i nostri raccolti, le granaglie ora sono seppellite sotto le case, e in queste condizioni come possiamo fare i raccolti del vino e delle uve? Non abbiamo nulla! Molta gente non ha più un riparo, la costruzione delle baracche è urgente; che cosa accadrà a questa gente, già malnutrita, se dovesse iniziare a piovere?" Le baracche furono costruite ma con molto ritardo. Il 21 settembre il paese venne visitato dal Cardinale Portanuova e Mons. Chieppa che insieme al marchese Berlingieri distribuivano sussidi in denaro ai danneggiati dal terremoto. Era stato improvvisato all'aperto un piccolo altare dove la gente si recava a pregare, perché la chiesa parrocchiale fu ridotta ad un ammasso di macerie: crollarono il muro posteriore e l'arco principale; la facciata riportò gravi lesioni e il campanile cadendo causò lo sfondamento del tetto.

   Ecco come il giornalista della "Tribuna Illustrata" Olindo Malagodi descrive le condizioni del paese subito dopo il flagello del terremoto: "Passiamo in mezzo ad un labirinto di rovine: il paese è più grande di Zammarò. La prima impressione della sua rovina è minore, perché molte case rimangono in qualche modo in piedi; ma per semplice apparenza, perché sono in uno stato che nessuna potrà essere conservata. Tutti i muri sono contorti, piegati, le pietre disgregate; la situazione forse è peggiore perché l'opera di ricostruzione qui dovrà essere preceduta da una lunga, pesante opera di demolizione. Sarebbe a pensarci, forse meglio ad abbandonare il luogo". La notte dell'8 settembre in casa dormivano appena 500 persone, gran parte degli uomini si trovavano fuori sparsi nei campi a guardia delle uve e dei fichi. Infatti, i morti e i feriti furono quasi tutti donne e ragazzi. Anche qui i congiunti poterono accorrere. Si deve soprattutto a questa combinazione se fu pronto il salvataggio. Immenso valore ebbe pure l'opera dei soldati e dei carabinieri che rischiarono ripetutamente la vita per salvare dei disgraziati che soffocavano sotto le rovine.

Nominativi delle 63 vittime di Piscopio

Candeloro Domenico; Candeloro Michele; Cannata Agostina; Carnovale Anna; Carnovale Antonia; Carnovale Maria; Carnovale Michele; Carnovale Santa; Carnovale Vincenzo; Carullo Giuseppe; Cirianni Serafina; Corsino Nicola; Cutrullà Naz.na Liberata; D'Amico Caterina; D'Amico Michelina; D'Angelo Anna; D'Angelo Francesca; D'Angelo Michele; Di Francia Angela; Fialà Maria; Fiorillo Angelo; Fiorillo Anna; Fiorillo Concetta; Fiorillo Maria; Fiorillo Michelina; Galati Rosa; La Bella Anna; La Bella Apollonia; La Bella Rosa; La Bella Teresa; Lo Schiavo Elisabetta; Mazzotta Annunziata; Mazzotta Francesca; Mignolo Francesca; Mignolo Michele; Natolo Marianna; Pannia Annunziata; Pannia Caterina; Pannia Rosa; Pannia Serafina; Pintimalli Vincenzo; Piperno Filippo; Piperno Francesco; Piperno Vincenzo; Pittella Anna; Pittella Domenico; Pricitano Nicola; Rascaglia Antonino; Rascaglia Michelina; Rombolà Caterina; Scandinaro Maria Teresa; Valia Michele; Zaccaria Angela; Zaccaria Anna; Zaccaria Antonio; Zaccaria Francesca; Zaccaria Maria; Zaccaria Michelina, 34 anni; Zaccaria Michelina; Zaccaria Rosa; Zagari Anna.

Parghelia, la notte del terrore

   Una cittadina tra le più suggestive e ridenti dell'intera costa tirrenica calabrese, contava 3000 abitanti prima che il terremoto dell'8 settembre la riducesse ad un ammasso di rovine sotto le quali rimasero sepolte 70 persone in prevalenza donne e bambini. Alle prime luci dell'alba di quel tragico giorno il lungo e bel viale del paese era completamente coperto di calcinacci e polvere; in fondo, guardando verso nord, erano visibili i resti scheletrici dell'artistica chiesa della Madonna di Porto Salvo con le due torri campanarie cadenti, un cornicione e gran parte del tetto erano crollati distruggendo preziosi oggetti e arredi sacri custoditi nel suo interno. Anche a Parghelia i primi soccorritori furono gli stessi abitanti ed in merito una eloquente ed emozionata testimonianza del disastroso evento è rimasta incisa nel diario "Terremoto e soccorsi", che noi riportiamo nella pagina successiva, in cui il diretto testimone Quasimodo (pseudonimo) descrive minuziosamente la drammatica realtà vissuta attimo dopo attimo dallo stesso autore e dall'intera popolazione della sfortunata cittadina. Questo "Diario", divenuto quasi introvabile, ha una straordinaria importanza nell'ambito della ricerca storica perché l'autore fa rivivere al lettore il terrore, le ansie, la paura, gli strazi vissuti nella fase successiva del dopo terremoto resa ancora più dolorosa dalla lentezza e dalla inefficienza che il Governo dimostrò nel prestare i primi soccorsi. Infatti, come apprendiamo dalla stampa del tempo, i militari arrivarono con un enorme ritardo, quando già parecchie vittime e molti feriti erano stati estratti dalle macerie dagli stessi loro concittadini.

   I militari del Genio Civile, diretti dal Capitano Abignente Giuseppe del 12° Reggimento di Fanteria, si prodigarono, in verità, senza sosta al recupero delle restanti vittime e feriti, nonché al ripristino delle strade ed alla demolizione dei muri pericolanti della case devastate. Inoltre venne istituito un cordone di militari armati intorno al paese che impedivano a chiunque di avvicinarsi alle rovine. Per i feriti i militari alle direttive del medico chirurgo Capitano Romeo di Siderno approntarono fuori dal paese un Ospedaletto da campo con tende e qualche baracca. Nella campagna antistante sistemarono anche un attendamento realizzato con lenzuola e coperte varie per permettere alle famiglie di ricoverarsi durante la notte. Altre famiglie trovarono riparo all'interno delle carrozze ferme sui binari della stazione ferroviaria. Le baracche, invece, furono costruite con notevole ritardo. Molte furono le autorità che visitarono Parghelia dopo il terremoto: il 12 settembre giunse Re Vittorio Emanuele III e il 19 settembre il Cardinale Arcivescovo di Reggio Gennaro Portanuova, con il Vescovo di Mileto Giuseppe Morabito, accompagnati da Don Tommaso Ruffa, parroco di Fitili; Don Lorenzo Vallone, parroco di Daffinà; Don Giuseppe Lentini, parroco di Daffinacello e il reverendo Don Antonio Caprile che ebbe i genitori travolti e feriti dalle macerie. Il terremoto non risparmiò neanche le chiesette di Sant'Antonio di Padova del XVII secolo, né quella di San Michele Arcangelo completamente crollata: rimase integra solo la nicchia contenente la statua del Santo.

   Dalle testimonianze del tempo, riportiamo che: sotto le macerie della chiesa parrocchiale di Sant'Andrea era rimasta sepolta la sacra Pisside con le ostie consacrate, un volenteroso soldato nativo di Cittanova Emilio Sgambaterra, caporale del 1° Reggimento Genio, non curante del pericolo, si introdusse sotto le macerie e la cercò sino a quando non l'ebbe ritrovata; la numerosa folla presente lo ringraziò con un lungo applauso. Anche una bambina di nome Maria Antonia Colace, venne estratta dalle macerie della propria casa dove rimase miracolosamente viva per quattro lunghissimi giorni. Inoltre, alle lentezze del Governo risposero con più speditezza i soccorsi dei Comitati pro Calabria: il Comitato Milanese impiegò lire 61.047,25 per la costruzione di numerose baracche. Dolore, lacrime, disperazione, lutti sconvolsero, dunque, la vita di centinaia di famiglie del Vibonese che in quella terribile notte di un secolo fa videro sparire sotto le macerie i propri cari e assieme a loro quel poco di beni racimolati con il duro lavoro dei campi.

   A ricordo di questo tragico evento tenteremo di riportare alla luce fatti e avvenimenti per non dimenticare una storia che se pur tragica ci appartiene, nel doveroso ricordo di coloro i quali non videro più l'alba dell'8 settembre 1905. Per offrire ai nostri lettori una descrizione reale della sciagura che investì l'intero Vibonese riportiamo ampi e significativi stralci senza modifiche del testo del diario "Terremoto e soccorsi", leggiamolo:

"Dal mese di giugno, abbiamo avuto un caldo soffocante; il sole bruciava maledettamente ed alla sera andava giù nell'acqua rosso, rosso come una brace, ed a quella ora, nei primi di settembre si notava fumare lo Stromboli fuori dall'ordinario.

   Le prime ore della notte poi erano caldissime, l'aria pesantissima e uggiosa e in essa, stando in luogo solitario, si ripercuoteva qualche rumore sordo proveniente da lontano, ma di questo non si faceva caso. La sera del terremoto, però i rumori furono più frequenti, la noia maggiore e le stelle cadenti si notarono a decine: però niente si previde e si andò a letto come al solito, sicuri di non dormire per il caldo.

   Erano le 2,45, dopo la mezzanotte, quando ad un tratto fummo svegliati da un turbine tremendo; pareva che tutto l'inferno si fosse scatenato contro le nostre povere case. E per averne una piccola idea basta forse immaginarsi di essere in treno velocissimo in discesa, sotto una galleria e all'oscuro, e in questa fra tuoni e rombi spaventosi giù da ogni lato pietre, mattoni, pezzi di muro, tavole, tegole, travi, vetri, quadri, bottiglie, lumi e quanto altro vi può essere in una casa: tutto questo inferno durò quaranta lunghissimi secondi! Appena finito, saltai giù dal letto, caddi parecchie volte tra i rottami in quel buio d'inferno, mi rialzai, aprì le porte con sforzi enormi, pur avendo contusioni, scalfiture, piaghe in tutto il corpo e mi buttai giù dalle scale gridando, chiamando aiuto e invocando i santi, durò tutto un minuto.

   Fuori non si vedeva più nulla, tanto era fitto il polverio che saliva dalle macerie; ma questo a poco a poco diradandosi permise che l'un l'altro ci potessimo vedere in viso.

   Tutti eravamo in strada, chi in camicia, chi coi soli calzoni, chi avvolto in un lenzuolo e qualcuno interamente nudo il quale rincantucciato cercava di coprirsi con le mani le vergogne.

   Si udivano intanto pianti disperati, singhiozzi e grida di pietà.

   Era poi un domandarsi scambievole, un comune abbracciarsi, un correre frettoloso in cerca di parenti, un andirivieni di gente che piangeva.

   E tutto questo avveniva mentre si sentiva lontano il rumore sordo di case che crollavano a cui seguivano grida angosciose... e si parlava di morti e di feriti, e si correva sul luogo frettolosamente.

   Una voce robusta tuonava lontano, una donna strillava tanto che assordava; un povero prete correva come matto da un luogo all'altro, scalzo e con la sola veste. E qui si ascoltavano fiochi lamenti e non si sapeva donde venissero, là si scorgeva un braccio agitarsi fra le pietre; in un cantuccio una donna quasi nuda gridava disperatamente, e si era sciolte le trecce e con esse si nascondeva il seno del tutto nudo; un'altra curva al suolo, tenendo con una mano un lumicino scavava con l'altra fra un monte di macerie, donde diceva di aver sentito venir fuori la voce di sua figlia, che in realtà fu poi trovata viva e con altri parenti. Un'altra, ancora, nel buio di un tugurio si stringeva al petto il corpicino freddo di una sua creatura: nella sua casa era sprofondato il pavimento e i figli li aveva perduti tutti.

   Un giovane, sposo da poco, gridava perché gli si togliesse di dosso il cadavere della moglie; un povero vecchio, rimasto con le gambe dentro, penzolava da un muro gridando che lo si liberasse dalla morte, e morì poco dopo; e così via via ci furono altri cento casi ancora più pietosi.

   Come Dio volle, però, dopo tre ore di angoscia arrivò finalmente l'alba ed allora ognuno poté contare i suoi morti ed abbracciare i vivi. Settanta furono le vittime e più di cento i feriti: due famiglie scomparvero completamente.

   All'alba seguì il sole che in un cielo di zaffiro illuminò quella ecatombe di martiri avvolti tra le pietre. Amara ironia! Ma beati loro, quelli che morirono, perché non videro lo strazio che gli uomini avrebbero fatto di loro se fossero rimasti vivi! Quel mattino il paese era solo dei morti, perché i vivi erravano per la campagna o sulla via ferrata e di là contemplavano con occhio impietrito il loro paesello distrutto, la casetta dirupata, i loro arredi, le loro piccole economie, tutto irremissibilmente perduto. I feriti poi erano anch'essi in campagna, distesi per terra, chi sotto un albero, chi in prossimità di un muro per ripararsi dal sole.

   All'inizio vi era un sol medico, poi ne giunse un altro; ma come potevano medicare senza i ferri chirurgici e senza medicinali? Le ferite furono lavate con acqua fresca e si fasciarono con stracci, qualche impacco per mancanza di ovatta si fece con foglie di fico e qualche sutura con l'ago comune. Ma la carità della vicina Tropea ci venne subito in soccorso, e fu allora, che, arrivati molti medici e molto materiale per medicare si sfasciarono le ferite e si rimedicarono regolarmente. E fu poi la stessa Tropea che ci fornì il pane per quella sera.

   Si telegrafò, intanto a destra e a sinistra, ma non giunse risposta da alcun luogo; si seppe dopo che la linea telegrafica era interrotta; malgrado questo, però, non si disperò nella provvidenza. E non sperammo invano perché alle ore 10 vedemmo giungere una compagnia di soldati. E il fatto andò così: la compagnia era diretta a Perugia e il comandante di essa, il Capitano B., saputo del disastro lungo il viaggio, perché veniva da Reggio, sentì il dovere di trasgredire l'ordine e di fermarsi sul luogo del disastro per darci aiuto.

   Si pensò subito ai poveri morti, nella speranza ancora di salvare qualcuno (e qualcuno si sarebbe potuto davvero salvare, perché morì di fame, come poi fu accertato) e si era già cercato per vanghe e zappe quando si sente squillare la tromba: la compagnia riparte perché il Capitano non ha avuto risposta a un suo telegramma (con il quale chiedeva ai suoi superiori l'autorizzazione di restare a Parghelia). E allora i morti e i sepolti vivi rimasero al loro posto. Aspettammo, poi, la nave ospedale per i feriti; ma che nave d'Egitto, se non si pensò neppure di mandare una barca di calce, per una qualsiasi provvisoria disinfezione! Pochi feriti, i più gravi, furono accettati nell'ospedale di Tropea, e a quel paese dobbiamo essere grati di quel che fece.

   Intanto mancava il pane: questo non si fece tanto aspettare, e con esso ritornò lo stesso Capitano B. con la medesima compagnia, e sotto il suo comando si distribuì il pane per la prima volta. E fu allora che un graduato addetto alla distribuzione, per far presto, ebbe la felice idea di rompere la testa a qualche affamato, che insisteva di più nella folla, scaraventandogli contro qualche pagnotta.

   E i morti, intanto, dormivano sottoterra e per qualche giorno ancora avrebbero dovuto pazientare in attesa dei militari del Genio. E il Genio, passò solo da noi quattro giorni dopo il disastro; ma esso era diretto a Pizzo, dove non vi fu che qualche vittima soltanto, e di là, poi, sarebbe ritornato a Parghelia. Saputosi questo si corse alla stazione ferroviaria, si supplicò, si pianse, ma a nulla valsero le nostre lacrime, né valse a persuadere quel comandante il puzzo nauseabondo che centinaia di cadaveri e di carogne di animali esalavano do sotto le macerie. E i militari del Genio andarono così a Pizzo e parte di essi, il giorno dopo ritornarono a Parghelia. Attendavamo, intanto, aiuti dal Governo e si sperava molto nella venuta del ministro Ferraris dei Lavori Pubblici. Però si era sempre con poco pane e si stimava fortunato qualche povero diavolo che aveva avuto un carro ferroviario nel quale abitare con la propria famiglia e dove ospitare anche in gran numero di parenti malati e feriti. Tolti questi fortunatissimi mortali, il resto della popolazione vagava per la campagna tutto il giorno dando la caccia ai fichi e in parte cercando di vendemmiare le vigne innanzi tempo, ed alla sera, poi, si ricoverava in qualche pagliaio o sotto una coperta messa a guisa di tenda, come fanno gli zingari.

   Quel che però fece sperare non poco e fa sperare sempre fu la venuta del Re. Tutti sapevano che il Re era in Calabria e che in automobile girava su per le montagne; ma a Parghelia si aspettava che arrivasse col treno per la mancanza assoluta di strade che qui si deplora. Qualcuno, verso sera, vide una nave ancorata nel mare antistante. Alle 5 del mattino, si videro passare a piedi lungo la via ferrata un gruppo di Generali; allora si pensò subito al Re. Uscimmo dalle capanne e dalle improvvisate tende e andammo loro incontro, tutti commossi invocando soccorso. Tra i Generali si riconobbe il Re e fu allora che sul volto di tutti si accese una luce di speranza e di giubilo e gridammo all'unisono Viva Savoia! Il giovane Re commosso sino alle lacrime passò in mezzo alla folla che più commossa di lui gli chiedeva soccorso. Egli, poi, guardò con pietà i poveri feriti, che seduti nei pressi dei carri ferroviari o stesi su la paglia, con il cappello in mano, facevano ogni sforzo pur di vederlo; e tutti ebbero da lui un saluto, una parola d'amore, una carezza. Tutto vide il Sovrano; tutto volle osservare attentamente e benignamente accolse anche qualche supplica scritta col lapis. Egli poi, sempre a piedi, saltellando tra i rottami, percorse il paese da un capo all'altro: passò sotto un campanile che minacciava di cadere da un momento all'altro; passò sotto case crollanti e fece sentieri accessibili soltanto alle capre. Il popolo, intanto, lo ammirava commosso e colmandolo di benedizione lo accompagnò sino al mare. Quivi giunti il Re ed i Generali montarono su di una barchetta ed il popolo schierato sulla spiaggia non si stancava mai di benedirlo e di gridargli: Evviva!, di chiedergli pane ed un tetto dove passare la notte. E quando la barchetta si mosse dal lido, un ultimo grido di evviva echeggiò forte nell'aria e cento fazzoletti con altrettanti cappelli si agitarono in essa.

   Il popolo, dopo la venuta del Re, incominciò a vivere di speranza e si compiaceva grandemente delle notizie lusinghiere dei giornali, dei telegrammi di solidarietà che giungevano all'Italia da ogni dove e si ringraziavano di cuore tutti i benefattori delle loro offerte a favore dei terremotati. La migliore manifestazione di affetto ed i maggiori applausi li riscosse però il "Mattino", quando si lesse il primo articolo molto energico di Tartarin; di quegli articoli se ne lessero poi altri due e nel leggerli si maledisse con Scarfoglio al Governo infingardo, si bestemmiò maledettamente il nome di Lamberti il disorganizzatore, e si applaudì al Sindaco di Monteleone.

   Arrivò il legname e si incominciò a costruire le baracche. E qui tralascio di parlare della camorra, degli incettatori, degli appalti, dei ladroneggi e di tutte le porcherie che si commisero nel prestar soccorso ai terremotati di Parghelia. Per il Genio Civile, fare una baracca, vuol dire né più, né meno, che chiudere alla meglio con tavole un rettangolo di una settantina di metri quadri di terreno e dividerlo in quattro o cinque stanzucce senza pavimento di legno, senza zinco, né cartoni impermeabili e senza cunette di scolo attorno. E detto così in parentesi ognuno di questi riposti da carbone costa allo Stato 1200 lire, pagandone 500 di sola manifattura. Ed è proprio in una di quelle divisioni che devono abitare sette persone in media, e là dormire, cucinare, mangiare e soddisfare i loro bisogni fisiologici. E solo per un po' di igiene, quando il tempo è bello, qualche persona ragionevole, di buon mattino preferisce andare a vuotarsi dietro una siepe o dietro un muro di campagna.

   Nelle baracche, quando è bel tempo vi si può stare; ma quando di notte tutta l'ira di Dio si scatena contro quelle povere tavole, e l'acqua vien giù dirottamente tra tuoni e lampi, ed un vento impetuoso, che gela persino le ossa, fischia fra le tavole mal connesse; quando quella povera gente vi vede venir dentro acqua, da ogni lato, e si trova all'oscuro col letto, con gli abiti bagnati, in camicia, tremanti di freddo coi bambini che gridano! Oh, allora!... Povera gente, povere madri! Bisogna non aver cuore in petto per non piangere. E a tutti questi guai se ne aggiunge ora anche un altro: una epidemia: il tifo. Quindi che fare? Convien scappare, fuggire per salvar la pelle, quel che il terremoto forse per ironia lasciò a parecchi. Ed ecco, quindi, qualche benestante andar via da quel luogo a cercare altro paese; ecco i marinai tornare dai loro porti e menar seco la moglie e i figli; ecco gli emigrati che tornano in Patria e portano via i loro superstiti a New York o in siti più lontani; ecco non pochi benestanti emigrare in cerca di ricovero e di pane nelle lontane americhe, poiché è certo migliore cosa andare quivi a lustrare le scarpe agli inglesi, anziché morir di fame, o vivere abbandonati sotto il bellissimo cielo d'Italia.

   E così ilGoverno d'Italia, un po' per volta si toglierà di dosso quella regione di zotici e di babbuini, che oggi gli dà tanta noia, e potrà avere agio di badare con più interesse alla simpaticissima nostra Eritrea, che vale tanto sangue quanto pesa! Se ha poi questa felice idea che metta almeno a disposizione dei partenti un qualsiasi legno, perché quei poveretti non abbiano a ricorrere per il viaggio agli strozzini, che sono la più straziante piaga di quelle terre. Chi amministra poi e come amministra Parghelia? Chi lo amministra? Non si sa. Non vi è Sindaco perché  Ã¨ di residenza stabile in una frazione del Comune e pensa solo a quella, e fa tutto a suo modo; il vice Sindaco, un simpatico vecchietto, curvo dalla persona, uomo onesto a tutta prova e dabbene, lavora, poverino, da cane tutto il giorno; ma il suo lavoro è di ben molto poca utilità per il suo poco contegno e non molto ingegno: è niente ubbidito, e spesso messo alla berlina dagli stessi uscieri; un Commissario Prefettizio comanda anch'egli la sua parte, ed ha la facoltà di farlo; il comitato locale vuole tutto dirigere e ne avrebbe ragione, al contrario dei militari, che di tutto invece dispongono a loro modo.

   Per quanto riguarda i soccorsi, si ebbe per più di un mese, e forse se ne ha ancora, roba in abbondanza e tutta roba buona: giacche sudice, calzoni rattoppati, soprabiti verdi, vestiti da donna del secolo di madame Angot, sottane lacere, due code di rondine che sarebbe stato forse meglio mandare al Museo di San Martino a Napoli, pochi cappelli unti e bisunti; sottane da donna e camicie foracchiate da topi. Questo ebbero i poveri, e se in tanto vecchiume si trovò qualche indumento nuovo, o qualche utensile, o coperta, o stoffa di valore non mancò certo un ladro che li sapesse carpire impunemente.

   Questo è quel che giunse in Calabria fin ora dei milioni che si sono raccolti; questo, laggiù, pervenne delle vostre robe, o caritatevoli commercianti, dei vostri abiti di seta, dei vostri doni, o pietosissime signore, o nobili uomini di Napoli specialmente che vi siete spogliati per vestire quei miseri! Però i calabresi sanno i vostri sacrifici e le vostre offerte e vi saranno parimenti grati, ed i magnanimi ladri d'Italia pensino che hanno commesso il maggiore dei delitti. I benefizi che si videro furono solo quelli della città di Milano, e le quaranta baracche fatte a Parghelia, da essa con intendimento umano resteranno ad imperituro ricordo della città, che forma il nostro vanto presso le nazioni civili. Ora se queste sono le condizioni di un paese fortunato che prima del terremoto aveva tutti i vantaggi d'uno di quei grandi borghi che in Calabria si dicono città, figurarsi in che situazione disastrosa debbono oggi trovarsi le piccole borgate di montagna in cui gli uomini facevano vita comune con le bestie..., e vedevano un sol giorno alla settimana il medico condotto, che tutto imbacuccato non vedea l'ora di sbrigarsi! Figurarsi quelle povere cure di Daffinà, Fitili, San Leo, Zaccanopoli, Brattirò, ecc., nascosti in una gola di montagna o messi in cima ad essa, senza strade, dove non giunge passeggero se non smarrito, e di cui non si seppe mai l'esistenza! Adesso, però, che il Governo li ha scoperti, adesso che sa che fra quei monti si annidano degli uomini (i quali benché ignorati pagarono sempre le tasse come gli altri), vedremo chi avrà cura di loro.

   Certo è, tanto per concludere, che fino ad oggi niente il Governo ha voluto fare. In un disastro simile, forse, non sarebbe stato inopportuno convocare la Camera di urgenza, a deliberare tanto quanto basta per fare due corazzate solamente, per sollevare tre province intiere di poveri infelici, che sono nostri fratelli in fin dei conti. Ma dove trovarne i fondi? Dove?! Dove si troverebbero forse altre cento milioni per la marina. Né sarebbe stato forse fuor di proposito dare un occhio alle baracche - furto; provvedere subito alla sicurezza di tanti infelici inviando qualche Reggimento del genio militare, togliendolo anche dalle grandi manovre, poiché più importante di esse era la vita di una regione intera, e mandare sul luogo soldati a far pane, come si fa in tutte le città quando scioperano i fornai. E per tutto questo avrebbero dovuto prendere parte attiva i deputati locali e non lasciarsi sfuggire un momento tanto propizio, ad ottenere tutto, poiché si era tutti convinti allora delle condizioni miserrime di tanta gente italiana, abbandonata al proprio destino in mezzo ai monti, e non aspettare che si raffreddassero le cose e la questione di Calabria passasse di secondo ordine. Né, mai essi, però, se avessero avuto cuore, avrebbero dovuto permettere che alla Calabria, a quella terra dei forti, che non tanto pensarono quanto fecero nella formazione d'Italia, si facesse la carità in quel modo, così barbaramente, così meschinamente. Che se i calabresi non fossero stati gente asservita, inerte, senza ideale, e per l'incuria del Governo sfiduciata di ogni probabile risorsa, avrebbero certo sdegnosamente respinto non l'aiuto, ma l'elemosina del mondo intero, quando come regione d'Italia aveva diritto di essere aiutata in tutto dal suo Governo direttamente".

Antonia Maria Colaci. Quattro giorni sotto terra

di Francesco Vallone

   Nei primi anni del secolo scorso una bambina di Parghelia divenne improvvisamente personaggio famoso. Filmata e fotografata, all'epoca, come una vera diva. Si chiamava Antonia Maria Colace, il suo merito, se così si può dire, è stato quello di rimanere sepolta viva per quattro giorni sotto le macerie provocate dal terremoto del 1905 che in quell'anno distrusse la Calabria. Dal momento del recupero la bambina venne perseguitata con tantissimi articoli di giornali, fotografie, riprese per alcuni film, copertine di riviste e la stampa di migliaia di cartoline.

   L'immagine di Antonia Maria in quel tempo girò letteralmente il mondo. Abbiamo recuperato i reportage d'epoca di alcuni inviati arrivati a Parghelia dopo il sisma che nel paese provocò settanta morti. Parghelia fra tutti i paesi era quello che impressionava di più. "E così arriviamo in questo povero paese dell'orrore e del dolore, scrive Olindo Malagodi, sotto un albero troviamo la bambina salvata miracolosamente. La madre vedendoci ci grida: Non voglio che la fotografate se non pagate. Ma un soldato ci spiega che dal momento del ritorno della bambina dalla morte, la disgraziata non è più in sé...".

   Malagodi afferma di aver recuperato la vera storia della bambina: Un ufficiale stava scavando alcune rovine, quando la madre della bambina lo pregò di trovarle il cadaverino per poter conservare, come ricordo, gli orecchini che la bambina portava. L'ufficiale si rifiutò; ma poi, commosso, chiamò alcuni zappatori e cominciò a scavare. Da sotto le rovine sembrava provenire una voce, fu creduto, il miagolio di un gatto. Ma, ad un tratto, uno dei soldati balzò indietro, pallido, e gridò: "Ma è la bambina; è la bambina; dice mamma, mamma, sentite...". Il lavoro fu sospeso. Si procedette avanti lentamente con il timore che le macerie franassero e schiacciassero la creaturina che viveva là sotto, miracolosamente. Mezz'ora dopo la bambina era fuori, tra le braccia della mamma. "Le fu dato del latte; poi il tenente le mostrò due soldi, ed essa li prese, li tenne fra le dita: era salvata... Abbiamo interrogato la bambina, che pare stordita dell'interesse che c'è intorno a lei". Ed ecco la versione de La Domenica del Corriere che al ritrovamento della bambina dal cognome Colacci, dedica anche la copertina illustrata da Achille Beltrame. "La bambina - che ora trovasi nell'ospitale di Tropea e che i medici sperano strappare alla morte - si chiama Maria Antonietta Colacci, e nacque nel '900 a Rosario Santa Fè, da genitori calabresi ivi emigrati. Dopo due anni dalla sua nascita, la madre tornò a Parghelia con due bambine, la minore delle quali, Maria Antonietta, fu ceduta alla nonna Anna, con la quale viveva in una povera stanza d'una casa. La scossa fatale seppellì nonna e nipote sotto le rovine. La vecchia rimase quasi soffocata sotto il pagliericcio, ricoperto di calcinacci. Terrorizzata, ella chiamò la bambina, la nipotina, dopo qualche flebile segnale, non rispose più. Due contadini riuscirono ad estrarre la nonna che cominciò a rovistare fra le rovine, quando udì come un miagolio. Alcuni soldati demolivano una casa vicina, la nonna chiese loro di salvare la nipote. Gli ingegneri accostarono l'orecchio al crepaccio e ascoltarono un fioco lamento. Qualcuno esclamò: E' un miagolio di una gatta. Rimossero le macerie e dal foro fuggì via una gattina, ma la nonna insistette, e alle preghiere di lei si aggiunsero quelle della zia, arrivata in quel momento. Le due donne, con le mani protese verso i soldati gridavano: dissotterrateci la nostra nipotina! Gli zappatori si rimisero al lavoro, e appena rimossa una trave si sentì nettamente una vocina. Fu fatto un buco con la massima prudenza, poi il tenente calò un pezzo di legno, il bastone si sollevò, la bambina era viva ancora. I tenenti operarono l'estrazione, tolsero il materiale, bucarono un armadietto ed ecco apparire la testa della bambina, che fu subito tratta di là. La bambina, pallidissima, aveva gli occhi fuori dall'orbita, le labbra e le orecchie ceree; alla vista del sole abbassò le palpebre. Accorsero i medici e le spruzzarono acqua sul viso. Il polso era debole, ma sul corpo non eravi traccia di lesioni. La bambina s'era salvata perché, spinta dall'urto del muro, entrò in una credenza della cucina, e quivi era rimasta accoccolata. L'aria che la circondava era poca, ma sufficiente tuttavia per il bisogno del piccolo organismo. Ad essa venne somministrata acqua, poi latte, poi ristori. Dopo mezz'ora cominciò a parlare. Riconobbe la zia, la nonna, la madre, e sorrideva e parlava francamente. La popolazione erasi raccolta intorno alla piccola salvata gridando al miracolo".

Zammarò: un enorme boato prima della catastrofe

   Tra i paesi più colpiti dal terremoto dell'8 settembre, risulta Zammarò piccolo centro agricolo del Comune di San Gregorio d'Ippona ubicato a pochi chilometri da Monteleone (Vibo Valentia). Le vittime furono 73, mentre i feriti 270; un bilancio disastroso pensando che Zammarò contava solo 400 abitanti. Anche in questa località nessuna casa rimase in piedi. L'alba dell'8 settembre per i sopravvissuti fu davvero tragica. L'intero paese era ridotto ad un immenso cumulo di macerie - neanche un muro rimase intatto - ricorda Olindo Malagodi - era tutto un raccapricciante aggrovigliamento di terrame e di legnami. In mezzo alle rovine i superstiti scavavano alla ricerca dei loro cari rimasti sepolti e delle cose perdute per loro ancora utili.

   Un contadino, testimone diretto della catastrofe raccontava: "Sentii un enorme boato provenire da sotto terra poi tutto mi crollò addosso come se si trattasse di una tempesta; riuscì ad uscire fuori della casa ma una folta nube di polvere mi impedì di capire quello che stava succedendo intorno. Qualche minuto dopo la scossa seguì una breve pausa di terrificante silenzio che fu subito spezzato dalle grida, dai gemiti e dai lamenti che provenivano da sotto le macerie, ma la fitta polvere ci impedì di vedere e di agire immediatamente. Per fortuna gli uomini più giovani, si trovavano in campagna, fuori dal paese per accudire ai raccolti".

   Sentito il terremoto questi giovani raggiunsero il paese e senza indugiare si misero a scavare tra le rovine, al buio, senza lanterne, senza fiaccole, scavando a mani nude; alle prime luci del sole centinaia di persone gravemente ferite furono portate in salvo. Ma altrettanto doloroso e orribile fu il recupero dei cadaveri resi quasi irriconoscibili dalle profonde ferite e dalla terra che li copriva.

   Il contadino sopravvissuto, alle domande dei giornalisti risponde con molta lucidità e con tanta emozione: "Dopo i feriti, incominciammo ad estrarre i morti; la scena era orribile. Disseppellimmo due povere madri che con le braccia stringevano ancora al proprio petto i loro bambini soffocati. I feriti li portammo in campagna nei pagliai; l'ospedale di Monteleone era mezzo rovinato. I morti li mettemmo tutti in fila sulla strada principale del paese, prima di portarli al cimitero: alcuni stentammo a riconoscerli".

   Dalla testimonianza di un parente di una delle vittime abbiamo appreso che i poveri resti delle vittime caricati su carri trainati da buoi furono seppelliti in una fossa comune all'interno del Cimitero di San Gregorio. Un'altra importante testimonianza ci proviene dal parroco del tempo don Monterosso, il quale raccontava: "Sentii il letto capovolgersi; cercai di raggiungere la porta e poi ad aprirla senza riuscirci perché sbarrata da enormi rottami; in quel momento la parete dalla parte dell'orto si spaccò e cadde. Uscii da quella parte e mi precipitai nell'altra parte della casa dove dormivano quattro miei nipoti. Trovai il pavimento sprofondato e tre nipoti erano illese nel letto rimasto sospeso alla parete, l'altra era precipitata giù col pavimento rimanendo mezza sepolta. Solo dopo molti sforzi riuscimmo a salvarla proteggendola con tavole contro i continui movimenti dei rottami. Un'altra donna venne scaraventata fuori dalla sua casa mentre questa andava in rovina, la poveretta si spezzò le gambe e rimase sulla strada tutta la notte senza rendersi conto di quello che era successo".

   I feriti, dunque, vennero curati alla meglio dai pochi volontari che per primi arrivarono sul posto. Anche a Zammarò, nella campagna vicino al paese si improvvisarono tende con coperte e stracci recuperati tra i resti delle case distrutte. Come degli altri paesi colpii dal sisma, gli aiuti del Governo tardarono ad arrivare e questa inefficienza segnò ancora di più le sofferenze e lo sconforto della nostra gente. Il 12 settembre, quattro giorni dopo il terremoto il Re Vittorio Emanuele III, accompagnato dal Ministro Ferraris visitò il paese. A differenza del Governo, tempestiva fu invece la solidarietà degli italiani, i quali inviarono ai paesi sinistrati contributi in denaro, generi alimentari, vestiario, tende e generi di ogni sorta.   

Nominativi di 54 vittime di Zammarò

Abbondanza Teresa, 6 anni; Arango Angela; Artusa Caterina; Bonello Maria Rosa; Buongiovanni Marianna, 16 anni; Carrà Caterina, 8 anni; Carrà Domenico, 12 anni; Carrà Giuseppe, 2 anni; Carrà Gregoria, 16 anni; Carrà Gregorio, 10 anni; Carrà Pasqualina, 4 anni; Consoli Filippo; Consoli Michelina; Del Duce Maria, 28 anni; Destito Maria Grazia, 31 anni; Divito Gregorio, 1 anno; Dominello Gregoria, 31 anni; Farfaglia Domenico, 36 anni; Farfaglia Giuseppe, 1 anno; Fiarè Caterina; Fiarè Maria Filippa, 2 anni; Fiarè Maria Grazia, 26 anni; Fiarè Maria Rosa, 1 anno; Fiarè Saverio, 4 anni; Gasparro Maria; Giamborino Annunziata, 13 anni; Giamborino Caterina, 11 anni; Giamborino Gaetano, 41 anni; Gullì Rosaria; Lo Mastro Caterina; Lo Schiavo Antonino, 8 anni; Lo Schiavo Michele, 4 anni; Lo Schiavo Rocco, 1 anno; Mammola Caterina, 1 anno; Melidoni Maria Antonia; Mignolo Anna, 32 anni; Minore Caterina, 8 anni; Minore Maria Giuseppa, 6 anni; Piperno Fortunato, 10 anni; Piperno Francesca, 2 anni; Polistena Angela Rosa, 9 anni; Restuccia Petrosilla, 38 anni; Spataro Concetta; Spataro Rosa; Suriano Maddalena; Todarello Rosa; Valia Domenico, 4 anni; Valia Fortunato, 2 mesi; Valia Francesca, 18 anni; Valia Francesco Saverio, 25 anni; Vavalà Rosario, 17 anni; Virdò Domenico, 16 anni; Virdò Silvestro; Virdò Silvestro, 11 anni.

Cronache di un terremoto

Stefanaconi

   A Stefanaconi, paese a pochi passi da Monteleone (odierna Vibo Valentia) i danni furono ingenti. La chiesa di San Nicola di Bari, costruita con i soldi mandati dall'America dai suoi immigrati, fu semidistrutta: il campanile si spezzò e la facciata crollò; della cupola restarono solo pochi resti. Successivamente venne abbattuta dai militari del Genio per ragioni di sicurezza. La chiesa di Santa Maria, invece, subì gravi lesioni: la facciata era cadente ed il timpano frantumato. Solo le nicchie rimasero intatte con le loro statue policrome in legno. Il paese era ridotto ad un ammasso di pietre e calcinacci. Le case ubicate nei pressi della chiesa parrocchiale crollarono tutte, comprese quelle situate sulla via Carità e via Serena. Al forte terremoto non scamparono neanche gli edifici di buona costruzione come quello dove abitava la famiglia Paparo, ubicato tra la piazza e via Speranza il cui tetto crollò in buona parte e le possenti mura rimasero lesionate.

   Alcuni fedeli, animati da forti sentimenti religiosi, improvvisarono all'entrata del paese una cappella con i Santi scampati alla distruzione. La piazzetta alquanto spaziosa venne trasformata in ospedale. I soldati del Genio, guidati da un giovane Tenente, alcuni giorni dopo del disastro iniziarono a demolire le case pericolanti ed a costruire le prime baracche per sistemare parte degli abitanti rimasti senza casa. Anche a Stefanaconi le vittime furono circoscritte perché la maggior parte degli abitanti dormivano in campagna per vigilare i loro campi. Comunque le persone uccise dal crollo delle loro case furono 66 e 30 rimasero gravemente ferite. La notte dell'8 settembre il Sindaco del paese Carullo riuscì a salvarsi per puro miracolo, mentre il parroco fu trascinato fuori dalla sua casa ed evitò così di rimanere investito dalle macerie. Un giovane precipitando dal secondo piano si spezzò le gambe.

Sant'Onofrio

   In questo Comune di 4000 abitanti, posto a pochi chilometri da Monteleone (Vibo Valentia), ci furono 13 vittime. Il terremoto aveva ridotto il paese ad un immenso cumulo di rovine. Spezzoni di muri, case gravemente danneggiate rischiavano di cadere addosso a coloro i quali scavavano ancora tra le rovine alla ricerca di oggetti personali. Il 22 settembre Sant'Onofrio fu visitato dal Cardinale Gennaro Portanuova e dal Vescovo di Mileto Mons. Giuseppe Morabito, il quale anche qui aveva fatto installare cucine da campo accudite da giovani seminaristi.

   La gente stravolta pregava e piangeva sui luoghi dove erano stati travolti i loro cari. La chiesa parrocchiale dedicata a Sant'Onofrio era quasi tutta crollata, i picconi dei militari abbatteranno qualche giorno dopo anche i resti rimasti ancora in piedi. Il Comitato di soccorso di Palermo, costruì un nuovo quartiere denominato "Quartiere Palermo - Modica" per un importo di lire 25.000.

Paravati

   In questo piccolo paese, frazione di Mileto, ci furono tre vittime. Paravati è circoscritto in due strisce di case ubicate ai lati della via principale. Anche qui, il disastroso terremoto dell'8 settembre lasciò le sue tracce di distruzione e di morte. Le case furono lesionate, alcune anche sventrate; il piccolo centro fu ridotto ad un cumulo di rovine.

   La chiesa parrocchiale venne per buona parte rasa al suolo. Durante il crollo del campanile una delle sue tre campane cadde sopra un tetto sprofondandolo provocando una vittima. Una seconda campana si spezzò cadendo pesantemente sulla strada. Gli abitanti, trovarono riparo sotto le tende da essi stessi improvvisate. All'entrata del paese, in una capanna con il tetto di paglia, era ricoverato il parroco di San Leo, rimasto ferito gravemente ad una gamba.

Mileto

   Cittadina di 4000 abitanti, a dieci chilometri da Monteleone. Ebbe 11 vittime. Apparentemente il paese sembrava essere scampato alla furia devastatrice del terremoto. Ma, quasi la totalità degli edifici e delle case erano rimaste gravemente lesionati e di conseguenza dichiarati inagibili, nonostante queste strutture furono costruite ex novo dopo le terribili distruzioni subite nei terremoti del 1639 e del 1783. Sotto le macerie delle case crollate rimasero 11 vittime e moltissimi furono i feriti. L'ospedale reso pericolante, fu improvvisato dentro tre preesistenti baracche logorate dal tempo: umide e senza pavimentazione. I feriti, erano curati alla meglio con quel poco di materiale sanitario che le suore della carità avevano a disposizione. L'8 settembre, in paese, doveva svolgersi la tradizionale fiera del bestiame e molti degli allevatori e diretti interessati provenienti dai paesi vicini vi pernottarono ignari di quello che stava per succedere, due di loro rimasero sotto le macerie.

   Anche il Seminario e l'Episcopio, costruiti con mura solidissime, subirono danni ingenti tanto che i seminaristi furono allontanati. La cattedrale, in più parti lesionata, venne chiusa al culto, la volta era in più punti letteralmente spaccata, le mura laterali presentavano profonde fessure, l'arco del coro era completamente fracassato e la cupola rovinata. L'appartamento del Vescovo era quasi interamente crollato. Fortunatamente la notte del disastro il vescovo Mons. Giuseppe Morabito si trovava a Reggio Calabria. Dell'Episcopio, rimasero solo i muri che, peraltro, minacciavano di cadere da un momento all'altro, il tetto non esisteva più. Inagibili erano, inoltre, l'ospedale e l'Istituto di San Giuseppe.

   Gli stessi abitanti rimasti illesi, dopo qualche ora di totale smarrimento e di terrore fisico e psicologico, si prodigarono senza mezzi e a mani nude a disseppellire dai calcinacci vittime e persone ancora vive e curare alla meglio i numerosi feriti. Anche i giovani seminaristi, senza risparmiarsi, si prodigarono a soccorrere feriti e bisognosi. Il brigadiere dei Reali carabinieri in servizio a Mileto, con i cinque suoi subalterni, a rischio della loro vita salvarono dalle macerie vite umane: "Sono sei giorni che indossano la divisa giorno e notte senza mai togliersela", scriveva il Malagodi. Il Vescovo Mons. Giuseppe Morabito, rientrato da Reggio Calabria, organizzò i primi importanti e vitali soccorsi che contribuirono a salvare molte vite umane non solo a Mileto ma in tutto il territorio colpito dal terremoto. Nonostante il suo precario stato di salute, trascorse giorni e notti in giro tra i feriti ed i sopravvissuti distribuendo pane e tutto ciò che poteva dare. Assieme ai suoi giovani seminaristi organizzò le cucine da campo ed i primi improvvisati ospedaletti. Mons. Morabito, uomo e sacerdote instancabile, sollecitava la costruzione delle baracche, prima dell'arrivo delle piogge autunnali che avrebbero fiaccato ancora di più il fisico e lo spirito dei sopravvissuti. Ma occorre amaramente evidenziare che ancora al 12 settembre, a distanza di cinque giorni dal tragico evento, il Governo non aveva provveduto ad inviare nessun aiuto mentre la gente di Mileto scavava ancora tra le macerie alla ricerca di eventuali superstiti.

   E proprio il 12 settembre, una vecchietta venne estratta dai calcinacci ancora viva avvolta in un lenzuolo utilizzato come barella, fu portata sotto una tenda per tentare di strapparla alla morte. Quindi, dall'8 settembre, a distanza di tanto tempo, non un solo soldato del Genio venne inviato a Mileto, né una sola baracca venne costruita, "nonostante le promesse dei governanti di Roma, la presenza dei Militari del Genio avrebbe risollevato il morale della popolazione". Protestava il Sindaco del tempo sig. Cannella Inzitari. Tra gli aiuti che Mileto ha ricevuto segnaliamo quelli del Comitato di Soccorso Palermo a favore della Casa di Ricovero per anziani abbandonati della città. Il Comitato Messinese donò lire 7.000 a favore dell'Ospedale e della Casa di Ricovero per anziani. Il Comitato Livornese, inviò la somma di lire 1.000 per la Casa di Ricovero per anziani.

San Costantino Calabro

   Centro vicino Monteleone, all'epoca contava 1500 abitanti. Le vittime rimaste sotto le rovine furono 7 e oltre 40 feriti. Anche qui le immagini raccapriccianti della distruzione sono le stesse esistenti negli altri paesi dell'intero circondario. Le vie erano impercorribili, cancellate dalle rovine e i muri contorti delle case minacciavano di crollare. La facciata della chiesa di San Rocco è crollata e le mura sono pericolanti. La chiesa parrocchiale, si legge nelle cronache, appena finita di costruire non esiste più, solo qualche muro rimane ancora in piedi in attesa di essere demolito dai militari del Genio. Gli scritti del Malagodi, testimone oculare di quel tragico evento, riportano che la casa del dottor De Luca, persona molto stimata in paese, era interamente crollata ed egli stesso rimase schiacciato nel sonno da un muro caduto sopra il suo letto. La moglie, grazie al tempestivo intervento dei suoi servi, riuscì a salvarsi. In una casa vicina completamente sventrata morirono due giovani sorelle, considerate le più belle del paese, i loro cadaveri vennero successivamente estratti dalle macerie ancora abbracciati.

   Non mancarono atti eroici da parte di alcuni cittadini impegnati a rimuovere come potevano pietre, travi e calcinacci con l'intento di salvare qualcuno ancora in vita. Un uomo, Caserta Antonino, infiltrandosi tra i rottami di una casa, a rischio della propria vita, riportò alla luce del sole una bambina quasi asfissiata dalla polvere strappandola ad una morte sicura. Anche Lombardi Comite, stimato nobiluomo, non curante del pericolo, aiutato da due suoi dipendenti trasse in salvo dalle rovine di una casa vicina alla sua, tre feriti. Gli abitanti si erano rifugiati nella vicina campagna sotto tende improvvisate e pagliai che servivano anche per accudire gli animali. Le case abbandonate erano soggette a continui atti di sciacallaggio, perpetrati a danno dei poveri cittadini, approfittando del caos esistente e dalla totale mancanza di controllo da parte dei militari che tardarono a giungere in paese. Tra la gente, a causa di questo ignobile saccheggio, non mancarono segnali precisi di indignazione e di insofferenza nei confronti degli organi governativi. Passato il momento di totale smarrimento, il paese ritornò lentamente a nuova vita. Il parroco Don Lico, aiutato da un gruppo di volenterosi, costruì una baracca nel cui interno furono conservati il SS. Sacramento e le statue dei Santi della chiesa distrutta.

Gasponi

   Molte case crollarono e quasi tutte le vie erano coperte di macerie; i resti delle mura rimasti ancora in piedi erano pericolanti ed un gruppo di militari si prodigò ad abbatterli. Ci furono tre vittime grazie anche al fatto che la maggior parte degli abitanti si trovavano in campagna. La pioggia arrivò la sera del 12, rendendo quasi inutilizzabili le tende improvvisate inzuppandole d'acqua. "Dalle tende provenivano - ricorda Rocco Cotroneo - lamenti e pianti di donne e di bambini". La volta della chiesa parrocchiale precipitò sul pavimento rovinando tutto quello che si trovava nel suo interno. Le mura ed il campanile erano gravemente lesionati e minacciavano di cadere da un momento all'altro. A distanza di 15 giorni dalla fatidica notte dell'8 settembre, neanche una baracca era stata ancora installata e degli aiuti promessi neanche l'ombra.

Fitili

   Paesino di 350 abitanti situato a qualche chilometro di distanza da Parghelia. Il sisma causò 9 vittime; una sola casa rimase in piedi, anche se gravemente lesionata, quella del sig. Grillo. Il numero delle vittime fu limitato perché, anche qui, gran parte degli abitanti dormivano nei campi per accudire alle case agricole. La chiesa parrocchiale di cui era parroco il reverendo Tommaso Ruffa, crollò completamente e solo qualche frammento di muro rimase in piedi prima che i soldati del Genio lo abbattessero. Le statue dei Santi, rimaste illese, furono sistemate e riparate sotto le tende in un orto all'entrata del paese, tra queste quella del Patrono San Girolamo orante nel deserto. Come gli altri centri abitati situati nell'entroterra del vibonese, distanti dai porti e dalle ferrovie, i soccorsi ritardarono ad arrivare.

Tropea

   Centro tra i più rinomati della costa tirrenica calabrese, contava 7000 abitanti, non ci furono morti. Tropea subì gravi danni; le case crollate sono state poche, ma il resto degli edifici erano quasi tutti inabitabili per le gravi lesioni riportate e per la pericolosa fattiva possibilità che potessero cadere da un momento all'altro. Anche l'imponente edificio dell'Episcopio presentava delle profonde lesioni sui muri e larghe e profonde crepe che per la loro pericolosità lo resero inabitabile. Nella stessa situazione si ritrovava anche l'edificio del Seminario Vescovile i cui giovani allievi che vi risiedevano furono costretti ad abbandonarlo. Nel palazzo della famiglia Toraldo sprofondarono i pavimenti di molte stanze e una congiunta si salvò rifugiandosi sul davanzale di una finestra.

   Innanzi a tale pericolo, gli abitanti terrorizzati di rientrare nelle loro abitazioni approntarono delle tende all'interno dei giardini e nel centro delle piazze. Lungo le vie che costeggiavano i giardini erano state costruite delle baracche di legno anch'esse gremite di persone.

   La sera del 20 settembre una copiosa pioggia, seguita da roboanti tuoni e fulmini e da raffiche di gelido vento costrinsero migliaia di persone a rifugiarsi nelle case pericolanti; anche la sacra immagine della Madonna di Romania, custodita al riparo di una tenda, accompagnata da canti, litanie e preghiere, da migliaia di fedeli, venne collocata sotto l'arco di una delle porte della Cattedrale anch'essa lesionata nella volta e nelle cupole, nel suo interno completamente rovinata era la cappella di Santa Domenica.

   La chiesa era stata chiusa al culto perché dichiarata pericolante. Nell'Ospedale, in più parti lesionato, furono chiusi i piani superiori; restò aperto solo il pianterreno dove erano ricoverati 22 feriti provenienti da Parghelia e da Zambrone.

   Per la ricostruzione il Comitato Bolognese del "Resto del Carlino" e "Popolare" consegnò lire 9.022,90, alla Congregazione di Carità di Tropea per impiegarli nella riparazione di edifici scolastici comunali e la rimanenza fu destinata alla costruzione di abitazioni in legno. Il Comitato Milanese, invece, donò lire 1.000, per l'Ospedale.

Caria

   Paese di 1.000 abitanti, ubicato a pochi chilometri da Tropea; dalla sua posizione si domina un panorama ineguagliabile della costa tirrenica con le suggestive immagini dello Stromboli ancora fumante, causa forse della disastrosa scossa.

   La via principale insieme alle vie secondarie erano coperte di macerie, molte case erano crollate. Lo scenario sembrava sempre lo stesso, ovunque un ammasso di rovine, il terremoto aveva cancellato anche l'identità di questi paesini sino a pochi giorni prima pieni di vita e carichi di tradizioni e di storia. La chiesa parrocchiale era cadente; il muro della facciata lesionato e una buona parte non esisteva più. Scampò alla distruzione una piccola chiesa posta all'inizio del paese, nella quale venne custodito il Santissimo Sacramento. Il paese era vuoto e i suoi abitanti attendati nelle campagne circostanti.

   A Caria, nonostante i gravi danni provocati dal sisma, si registrò una sola vittima.

Joppolo

   Il paese, ubicato a pochi chilometri da Tropea, contava 1.000 abitanti. Molte furono le case lesionate ma il maggior danno lo subì la chiesa parrocchiale, dedicata a San Sisto Papa che fu completamente devastata. La facciata era segnata da larghe fessure; un gran numero di case furono puntellate per evitare ulteriori danni alle persone, altre spaccate. Solo una casa fu rasa al suolo, fortunatamente il suo proprietario l'anziano Salvatore Macchione si salvò perché si trovava a Tropea.

   In questo paese non si registrò alcuna vittima, ma solo vistosi danni. Anche la stazione fu gravemente danneggiata tanto che il capostazione con la sua famiglia si stabilì in un carrozzone portandosi dietro il telegrafo e la macchina dei biglietti. Anche qui i soccorsi arrivarono con notevole ritardo.

Pizzo

   Subì molti danni e quattro morti; il suo ospedale venne chiuso ed i settanta feriti provenienti dal comprensorio di Monteleone furono sistemati sotto le tende della Croce Rossa assistiti dalle suore di Carità. La chiesa di San Giorgio era rimasta gravemente danneggiata: un gruppo di soldati fu costretto ad abbattere il campanile pericolante e il suo pavimento era rovinato a causa di una miriade di crepacci; i muri laterali presentavano profonde lesioni e spaccature. Le case intorno minacciavano di cadere da un momento all'altro.

   La chiesa del SS. Crocefisso non subì alcun danno e molti feriti vennero ricoverati nel suo interno. La stazione, invece, subì gravi danni: la tettoia era rovinata ed era quasi del tutto crollata. Il Capo Stazione, tra mille disagi, svolgeva il suo lavoro all'interno di una vicina baracca nella quale era alloggiato anche il Comando Militare per la consegna e la distribuzione di materiale e di viveri.

   Molti cittadini trovarono riparo per la notte dentro i vagoni fermi alla stazione; in uno di questi carrozzoni trascorse la notte anche il Vescovo di Cariati in visita alle zone colpite dal terremoto. Gran parte della popolazione, terrorizzata dalle continue scosse di assestamento, si era sistemata con tende molte delle quali erano state improvvisate con coperte e stracci vari alla Marina.

Cessaniti

   Anche in questo paese di 900 persone il terremoto rovinò quasi tutte le abitazioni, molte crollarono provocando 16 vittime. I soccorsi ritardarono ad arrivare e la gente fu costretta ad organizzarsi alla meglio.

   Il giornalista Malagodi così descrive il paese da lui visitato qualche giorno dopo il sisma: "A Cessaniti troviamo il solito spettacolo, un tavolo nel centro della piazza con alcune persone intorno; in un prato dietro il paese alcune baracche di frasca. Le vie sono sormontate da rovine e nessuna casa è abitabile".

   Qualche contadino ricordava che il primo giorno venne distribuito del pane pessimo pessimo fatto con lupini e patate ed anche ammuffito. Il Comitato Centrale Piemontese, stanziò lire 22.877,50 per la costruzione di baracche, sussidi e indumenti. Inoltre ha erogato a tutto il 1906 e il 1907, la somma di lire 400,000, nell'acquisto di terreni e di sorgenti d'acqua, in onorari e compensi per lavori di ricostruzione, nel riattamento della strada Briatico-Favelloni, nella costruzione di un acquedotto, nella ricostruzione della Casa parrocchiale e della Scuola Elementare.

Favelloni

   Favelloni, paesino vicino Cessaniti, fu interamente distrutto e sotto le macerie rimasero 7 vittime e 10 feriti. Le vie erano letteralmente coperte di calcinacci ed era impossibile percorrerle. La chiesa di San Filippo d'Argirò era completamente rovinata. La gente trovò riparo nei campi circostanti in capanne fatte di frasche, con paglia e con stracci di ogni sorta.

   Il Sindaco si lamentava, appunto che, un chilo di pane per famiglia, non era sufficiente perché vi erano dei nuclei familiari composti anche da sette persone. La gente si nutriva, quindi, di fichi d'india e di qualche frutto che ancora si trovava in giro per i campi.

   Si aspettava con ansia il legname per la costruzione delle prime baracche prima dell'arrivo della pioggia. Per la ricostruzione il Comitato Centrale Piemontese, stanziò lire 22.877,50 per le baracche, sussidi e indumenti. Inoltre ha erogato a tutto il 1906 e il 1907, la somma di lire 400,000, nell'acquisto di terreni e di sorgenti d'acqua, in onorari e compensi per lavori di ricostruzione, nel riattamento della strada Briatico-Favelloni, nella costruzione di un acquedotto, nella ricostruzione della casa parrocchiale e della scuola elementare. Grazie a questa straordinaria solidarietà venne costruito un nuovo quartiere denominato: Favelloni-Piemonte.

Briatico

   Briatico, già colpito duramente da precedenti terremoti, fu danneggiato "orrendamente". Le case erano inabitabili perché gravemente lesionate; le strade coperte da calcinacci, detriti, terra e travi. La popolazione aveva trovato riparo nei campi vicini in capanne di frasca e tende costruite con lenzuola e coperte. Maggiore danno, invece, lo subirono i villaggi vicini: a Villa Lapa ci furono 10 morti; a San Leo 5.

   "Dei signori Lombardi-Satriani - come ci riporta il Cotroneo - nove furono sepolti dalle macerie, quattro soli si salvarono". A Mantineo il crollo delle case causò 5 vittime; a Pannaconi 8; a Paradisoni 7; a Conidoni 6.

Elenco di Paesi del Vibonese

con il numero delle vittime causate dal sisma

Calabrò .......................

Caria ............................

Cessaniti ....................

Conidoni ....................

Dinami ........................

Drapia .........................

Favelloni ....................

Filadelfia .....................

Fitili ..............................

Francica ......................

Gasponi ......................

Ionadi ..........................

Lampazzoni ..............

Limbadi ......................

Limpidi ........................

Mantineo ...................

Mileto ..........................

Monteleone ..............

Monterosso ..............

Olivadi .........................

Panaia .........................

Pannaconi .................

Paradisoni .................

Paravati ......................

Parghelia ....................

Piscopio ......................

Pizzo ............................

Polia .............................

San Leo .......................

San Calogero ............

San Cono ...................

San Costantino Cal..

San Gregorio .............

San Marco .................

Sant'Onofrio .............

Simbario .....................

Spilinga .......................

Stefanaconi ...............

Triparni .......................

Villa Lapa ....................

Zaccanopoli ...............

Zambrone ..................

Zammarò ...................

Zungri ..........................

7

1

16

6

2

2

7

1

9

1

3

10

2

1

3

5

11

7

2

13

2

6

7

3

70

63

4

2

6

1

4

7

73

6

13

2

1

66

37

10

6

11

73

13

Dopo il Terremoto!

Opuscolo redatto da Mons. Giuseppe Morabito, Vescovo di Mileto, il 19 settembre 1905

   A ricordo di Mons. Giuseppe Morabito Vescovo della Diocesi di Mileto dal 1892 al 1922, si è inteso riportare integralmente il discorso-appello contenuto in un oramai raro volumetto pubblicato il 19 settembre del 1905 dallo stesso benemerito Vescovo rivolto ai suoi Parroci ed ai fedeli subito dopo il terremoto dell'8 settembre.

   "L'orrendo flagello del terremoto ha gettato nella desolazione e nel lutto le nostre belle contrade! Gli uliveti già mostravano appariscenti e sane le olive e si sperava nel prossimo raccolto per rendere meno disagiata la vita delle nostre popolazioni: ma è venuto un flagello a cui nessuno pensava, ed ha offuscato le più liete speranze; ha trasformato tanti paesi in macerie rosseggianti del sangue di tante vittime, rimaste miseramente schiacciate sotto le rovine, o finite di stento e di asfissia nella lunga attesa del soccorso, invano chiesto ad alte grida e giunto ahi! troppo tardi.

   Tuttavia, come sole sfolgorante nella bufera, è sfavillata la pietà de' vicini e de' lontani per la desolata Calabria: il Sommo Pontefice con telegrammi e lettere ha espresso a noi Vescovi il suo paterno dolore per tanta sventura; ha elargito soccorsi, e vuole, essere informato delle sofferenze de' suoi figli.

   Il Re è volato da Racconigi, e lo abbiamo visto o Dilettissimi, percorrere le vie dei nostri monti, senza guardie e senza pompe; lo abbiamo visto, come un semplice soldato, sulle rovine sprezzante le fatiche e i pericoli, ed elargendo sussidi con uno slancio ed una pietà veramente ammirabili. La prima domanda che il giovane Sovrano Ci rivolse fu per le nostre chiese: il cielo lo benedica e lo protegga. I soldati si sono visti lavorare col loro giovanile ardore, per dissotterrare i feriti e i poveri morti. Come si è constatato in questa circostanza che i soldati sono nella nazione una forza viva, sempre pronta al sacrificio, purché sia guidata con prontezza e criterio! L'esercito non è solo per la guerra, ma è la gioventù d'una nazione reggimentata contro le sventure umane.

   E poi tutta l'Italia ha volto i suoi sguardi a noi; persone e giornali di ogni partito sono unanimi nel sentimento della pietà per i figli della Calabria; e viveri e indumenti e sussidi e finanche arnesi di cucina e stoviglie, e poi tavole e tende sono venute e vengono continuamente in nostro soccorso e tutte le nazioni di adoperano a sollevare le nostre sventure. Figli dilettissimi, questo fervido slancio di carità commuove profondamente l'animo Nostro, e siamo sicuri che ancor voi siete animati dagli stessi sentimenti di gratitudine pe' nostri benefattori.

   La nostra gratitudine pertanto non sia sterile; preghiamo per tutti i benefattori: se la nostra Diocesi è stata maggiormente provata dalla sventura, è ancora essa con maggiore affetto guardata e consolata da tutti.

   Preghiamo quindi pro benefactoribus nostris. A questo fine i Rdi Parroci esorteranno i fedeli ad applicare numerose Comunioni per i benefattori, e in fine delle Litanie, dopo il S. Rosario, si reciti la preghiera: Retribuere, dignare Domine etc.

   Torno poi a ripetere che si esortino i popoli alla pazienza e alla calma: i soldati sono tra noi per apportare soccorsi; non devono essere adibiti per mantenere l'ordine: questo ordine deve essere mantenuto dal sentimento cristiano. I soldati hanno pure madri e sorelle che di lontano pensano ad essi sapendoli fra i pericoli: ebbene, fate vedere la vostra gratitudine mostrandovi calmi, e lasciando che essi svolgano a soccorrervi tutta la loro attività. Saremo così benedetti da Dio e dagli uomini.

   Girando per i paesi distrutti in tutto o in parte, abbiamo veduto non solo le vostre lagrime e le vostre sofferenze, ma ancora la vostra Fede viva e il desiderio di vedere presto rifatte le vostre Chiese: Iddio vi ascolterà.

   Ognuno di voi è addolorato per sé e per la sua famiglia; il Nostro cuore è addolorato per tutti voi, quanti siete afflitti della nostra cara Diocesi da Palmi a Filadelfia, dalle sponde del Tirreno all'Aspromonte: vi benediciamo quindi con tutta la effusione dell'animo Nostro e preghiamo il Signore che per la intercessione della Vergine SS. e de Santi Protettori della Diocesi e di ogni parrocchia vi benedica dal cielo e vi liberi da nuovi flagelli.

   I M. Rdi Parroci mandino subito alla Rma Curia una relazione intorno a' danni subiti dalle Chiese, dicendo se furono distrutte o danneggiate, e facendo sapere la spesa approssimativa necessaria per la riparazione o ricostruzione di esse, dovendo Noi riferire intorno a ciò alle Autorità superiori. Ci mandino inoltre le liste degli orfani del terremoto, poiché Istituti religiosi e caritatevoli famiglie da diversi paesi si offrono per accoglierli ed educarli. Infine ordiniamo che siano sospese le pompe esterne delle feste, finché non sia cessato questo periodo funesto: è tempo di preghiere e di lacrime, e sarebbe doloroso veder fuochi d'artifizio ed ascoltare suoni di bande, mentre echeggia ancor per l'aure il singulto di tante vittime, e le macerie rosseggiano del loro sangue".

La Tragedia del Terremoto

trasformatasi in un poema di carità

   "Il terremoto in Calabria è stato una tragedia orrenda! La notte dell'8 settembre in queste desolate contrade ebbe fremiti e singulti che nessuna penna può descrivere: il terremoto è una potenza misteriosa, immane, che scuote, scrolla, stritola in un istante senza dar tempo alla fuga! La terra sembra divenuta una belva che cerchi scuotere dal Suo dorso la razza umana, le opere dell'arte e del genio. Nella litania dei Santi solo il terremoto è chiamato flagello!

   E questa tragedia già tante volte ripetutasi alle falde degli Appennini di Calabria, e sulle sponde dello Ionio e del Tirreno, questa volta prese proporzioni d'una vastità immensa; quantunque abbia determinato specialmente nella vasta Diocesi di Mileto la sua potenza sterminatrice.

   Per le nostre campagne si vedono qua e là ruderi sgretolati; non sono mura pelasgiche; ma miseri avanzi di borgate distrutte in altri secoli dal terremoto e poi piantate altrove. Da qui a pochi anni altri ruderi si vedranno nereggianti al sole; e, passando lì presso, la fantasia sentirà gemiti e grida e singulti di morenti: saranno le orride tracce del recente disastro!...

   E i genitori e i figli superstiti non hanno potuto neppure piangere i loro Cari sì orrendamente spenti in quella notte ferale; il terremoto, come nemico selvaggio, gli incalzava coi suoi rombi sinistri, con le sue scosse minacciose e truci!

   Povere vittime! Possiate aver trovato aperte le Vie dell'eterna luce, dopo gli strazii e le tenebre di quella notte orrenda! Ma sorse il sole: il telegrafo lanciò sui lunghi fili il gemito angoscioso dei figli di Calabria, e il mondo si scosse atterrito: né si pensò solo di contare le centinaia dei morti, come avviene nelle guerre; ma un senso di Profonda pietà invase gli animi, e, mentre i Vescovi con commoventi pastorali parlavano delle sventure della Calabria alle loro diocesi, e i più credenti offrivano suffragi alle povere vittime, ogni classe di cittadini pensò accorrere al soccorso: tutti i partiti in un istante si incontrarono sul campo della desolazione: la stampa di tutto il mondo formò un coro gigante, quasi grido di mille popoli, che parlò di fratellanza, di carità, di amore ai figli di Calabria: tutte le ascose energie di compassione si destarono; il sentimento della fratellanza umana mise in vista la ignorata bontà di tanti cuori: la tragedia si è trasformata in un grandioso poema di carità.

   Erano poco note le miserie della Calabria: il terremoto le ha esposto al sole, e attirò, col magnetismo onnipotente dell'amore fraterno, i rappresentanti di tutta l'Italia a veder quelle miserie, a ripararle.

   Sui nostri monti e per le nostre valli, fra le selve degli ulivi e su' i distesi campi, prima e dopo la venuta del Re, mentre il Papa della carità, Pio X, chiedeva ansiosamente notizie, e il Cardinale Portauova accorreva sui luoghi del disastro, si son visti Generali, Ministri, Sacerdoti, Comitati, nobili dame, in automobili, in carrozzelle, sovra muli, a piedi, correre ansiosi portando soccorsi, parole d'affetto, e versando lacrime in vista dei piangenti; mentre, presso le rovine, splendono al sole le bianche tende della Croce Rossa, come candido sorriso di carità.

   Che siete venuti a cercare, o generosi?... Siate benedetti da Dio, come vi benedicono gli orfani, le vedove, i deleritti: la Calabria è stata teatro di una orrenda tragedia, ma sulla tragedia per voi ora si svolge il poema, il gan poema della fratellanza umana. Oh! Avrei voluto fotografare in un istante tutta la Calabria desolata; fotografarla, quale ora è, percorsa, assalita da generosi venuti da lontano; fotografarla con le sue rovine e cogli accorsi a sollevare gli sventurati, e su questa scena scrivere dal Tirreno all'Ionio: L'umanità redenta trionfa nell'amore!

   Sbalorditi, laceri, contusi centinaia d'orfanelli, di poveri bambini guardavano i genitori morti o feriti: poveri bimbi, poveri figli della sventura, le vostre pupille smarrite cercavano invano le domestiche pareti!... Ma vennero gli angeli de' derelitti; il Padre Beccaro e il Padre Fulgenzio, il Padre Messina e Don Giulio Cantù, e poi due Dame della misericordia, mandate dalla grande benefattrice la Principessa Letizia, sono apparsi come pellegrini di carità sublime: e schiere di piccoli Calabresi son partiti o partiranno per Milano, per la Sicilia, per il Piemonte. Vi ho visto partire, o miei cari bambini e vi ho benedetto, ma ho benedetto ancora e benedico gli angeli venuti a tergere le vostre lacrime, ad accogliervi al loro seno, a condurvi ove troverete conforti e sorrisi.

   E poi da tutta l'Italia mi son venute lettere commoventi di nobili signori, di Direttori e Direttrici di collegi e di educatori che si offrivano di accogliere orfani, mentre i Vescovi offrivano i loro seminari per i miei seminaristi... E' un poema di carità!

   Questo slancio, tale da arrivare, qualche giorno, fino alla confusione non si deve però arrestare; ha preso finalmente la sua via; si è orientato: i soccorsi momentanei son venuti; ma i senza tetto sono molti; l'inverno si avvicina pauroso; i vecchi e gli infermi aspettano soccorso: la tentazione di emigrare potrebbe divenire fatale a queste contrade; già molte braccia si trovano in America o altrove; bisogna impedire che lo sconforto spinga lontano dalla patria tutte le restanti giovani forze calabresi, che ora guardano i campi, quasi titubando se restare o partire; non lasciamo emigrare queste forze che sembrano inerti e sono invece cupamente pensose.

   Quindi si ricostruiscano case e borgate, si fermino a tempo gli operai, ché altrimenti i nostri campi diventeranno sterili sodaglie, quasi che su di essi fosse passato non il zeffiro dell'amore di tutta l'Italia, ma l'afa di un vento distruttore. Quando i risorti villaggi brilleranno al sole, e i piccoli proprietari vedranno che possono ricostruire la loro dimora cogli aiuti del fraterno amore, allora voi, o generosi figli delle cento città d'Italia, voi valorosi corrispondenti di tanti giornali ai quali avete trasmesso i singulti di questa terra desolata, tornando ai piani lombardi, alle aure del Piemonte, ai sorrisi della Liguria e della Sicilia, dite pure ai vostri concittadini da Genova a Palermo, dalle Alpi agli Appennini, dalla laguna veneta alle sponde dei mari: in Calabria si è svolto un gran poema; il poema dell'amore fraterno: la Calabria ci benedice!"

Nei paesi della desolazione

Viaggio nei luoghi del Vibonese che subirono il catastrofico sisma

di Vito Teti

   "All'otto di settembre già sapiti/ vinni lu rugurusu terremotu/ E cu' è rimastu mortu e cu' feritu/ E cu' sutti alli muri su' atterrati./ Li chjiesi tutti a terra su' caduti/ Li missi si celebranu alli strati/ Unu de chiji di' vinni a restari/ Chiju chi teni a mani lu Signori". (L'otto di settembre già sapete/ venne il rovinoso, il rumoroso, terremoto/ E chi è rimasto morto e chi ferito/ E chi sotto ai muri sono atterrati./ Le chiese tutte a terra sono cadute/ Le messe si celebrano nelle strade/ Uno di quelli là è riuscito a sopravvivere/ Quello che ha tenuto per mano il Signore).

   Filippina Natale mi guarda con intensità e mestizia, con una bella faccia antica, nella sua casa di S. Gregorio d'Ippona, a pochi chilometri da Vibo Valentia. Ha appena recitato un canto che sentiva da bambina tra le rovine del paese distrutto e che lentamente veniva ricostruito. Nata il 5 ottobre del 1920, il "rugurusu terremotu" era avvenuto quindici anni prima, ma nell'infanzia ha ascoltato soltanto racconti e ricordi dei suoi familiari "fissati" a quel drammatico evento. L'otto settembre del 1905 assurge a una sorta di tempo "mitico" ("già sapiti") che separa il prima dal dopo. La madre raccontava a Filippina che il marito, insieme ad altri, trasportava i morti al cimitero con i carri tirati dai buoi. Accompagnato dai figli Nicola, Gregorio, Francesco Vinci, di cui sono amico, ho ascoltato, registrato e filmato altre volte Filippina, ho letto e riletto i cinque quaderni nei quali, lei appena alfabetizzata, ha trascritto centinaia e centinaia di storie, leggende e canti, soprattutto a sfondo religioso. Di sua iniziativa. Non vuole che si perda la memoria di quanto ha appreso da altre donne e dai nonni. Davanti mi trovo una vera e propria biblioteca (orale e scritta) di un mondo perduto, miracolosamente "salvata" e custodita, grazie a questa donna dal volto bonario e sicuro. L'ho ascoltata altre volte, con attenzione, sempre coinvolto, ma in questo viaggio nei luoghi del terremoto l'ho sentita ancora più commossa e piena di pietà come se ricordasse un lutto recente e come se "cantando" compisse una sorta di cordoglio e un'opera rammemorante. Ho studiato i canti sui terremoti (alcuni pubblicati da Raffaele Lombardi Satriani, la cui famiglia e la cui casa sono state quasi distrutte dal terremoto descritto nel volume "La Bontà di un re e la sventura di un popolo", Passaforo, Monteleone, 1905, adesso ripubblicato presso Rubettino a cura di Luigi M. Lombardi Satriani), ma sentirne uno recitato e cantato da una donna anziana, lucida, desiderosa di ricordare, mi provoca una sorta di turbamento. 

   Ho visitato Zammarò, frazione di S. Gregorio, in religioso silenzio: del vecchio abitato restano soltanto due mezzi portali e il vecchio Calvario. Resistono e attirano l'attenzione due baracche costruite dopo il terremoto.

   Il canto (è difficile stabilirne l'origine colta o popolare) conferma quanto i tanti osservatori e gli inviati di numerosi giornali locali, nazionali e stranieri hanno documentato e fotografato con grande partecipazione e forte spirito umanitario. La memoria orale e le fonti scritte concorrono al ricordo dell'orrore provocato dal terremoto. A Zammarò, dove su quattrocento abitanti ne muoiono ottanta e duecentocinquanta restano feriti, Olindo Malagodi scorge lo "spettacolo del terremoto". "Nemmeno una casa, nemmeno un muro intatto; tutto un immenso aggrovigliamento di terrami e legnami". All'entrata del paese scorge un altare improvvisato: le statue dei santi, sbalzate fuori dalla chiesa, sepolte dalle macerie, disseppellite, erano rimaste, "miracolosamente", integre. Un superstite racconta al giornalista: "I feriti li abbiamo portati via da tutte le parti, per la campagna, per metterli al riparo sotto i pagliai. A Monteleone era impossibile portarli, con l'ospedale mezzo rovinato. E poi ogni famiglia vuole tenerseli con sé. I morti li mettemmo tutti in fila là, sulla strada maestra, prima di portarli al cimitero. Ve n'erano di quelli così deformati da non poterli riconoscere. Ce n'erano degli altri invece che non mostravano nessun segno, e pareva fossero morti solo dallo spavento...".

   L'8 settembre, per iniziativa dell'Amministrazione Comunale di S. Gregorio d'Ippona, verrà apposta una lapide con i nominativi degli scomparsi. Iniziative di commemorazione, celebrazioni di messe, mostre fotografiche, convegni sono stati realizzati o sono previsti in altri luoghi colpiti dal sisma, come Favelloni, frazione di Cessaniti, e Stefanaconi, dove morirono sessantasei persone, Parghelia, paese interamente distrutto, con circa settanta morti.

   A Zungri, da tempo, è esposta una mostra permanente, voluta e organizzata da Francesco Pugliese, storico attento e appassionato, che nel 1996 ha pubblicato un bel volume dal titolo "Il terremoto dell'8 settembre 1905 in Calabria" (Arti grafiche BMB, Firenze). A Vibo Valentia (la "capitale di un paese di desolazione", con il rione "Forgiari" interamente distrutto e dove sono morte sette persone) il terremoto viene ricordato grazie al pregevole e documentato numero monografico (ricco di articoli e di dati di tutti i paesi del Vibonese) di "Monteleone", mensile di arte, cultura e memorie storiche (edizione speciale, anno 2, 8 settembre 2005, diretto da Felice Muscaglione. "Il Quotidiano" ha informato su altre importanti iniziative - anch'io ho già pubblicato (22 agosto 2005) un lungo inserto - ma, certo, la "mappa del ricordo" non è completa. Sento di segnalare con favore, che un evento drammatico, all'inizio avvolto dalla dimenticanza, quasi rimosso, è stato assunto (al pari dell'emigrazione) come tratto costitutivo della storia recente e della "memoria" dei diversi paesi. Molte iniziative locali, dal basso, di "qualità" dovrebbero fare riflettere quanti nella nostra terra spesso promuovono e finanziano improbabili rappresentazioni delle origini, celebrano, con parate strapaesane, eventi mai accaduti, personaggi mai esistiti.

   Se è vero che i terremoti, che hanno sconvolto la regione (1638, 1659, 1693, 1783, 1905, 1908) hanno segnato in maniera "sotterranea" la vita, la cultura, la mentalità, la religiosità delle popolazioni, è vero che la "memoria consapevole" e la "celebrazione" come fatto rifondante di una comunità, hanno bisogno di essere "organizzate". La memoria, termine - unitamente a tradizione e a identità - carico di una forte ambiguità, impregnato talora di retorica, non è qualcosa di dato, scontato, di ereditato. La memoria va coltivata e va alimentata. E' fatta di scelte e di selezioni. E' fatta anche di oblii, talora "necessari". Ricordare, come scrive Eviatar Zerubavel, è anche un'attività guidata da "norme della rimembranza", inequivocabilmente sociali, che ci dicono cosa dovremmo ricordare e cosa invece dovremmo dimenticare. Come ho constatato nei miei viaggi negli ex "paesi della desolazione" (dove, però, ho scorto nuove forme di abbandono e di distruzione) cento anni sono sufficienti per "fare passare il passato", perché vengano dimenticati anche eventi dolorosi e tragici. Possono bastare due generazioni perché si "cancellino" anche i più devastanti avvenimenti o per poter ricominciare. La voce dell'anziana contadina, le foto delle rovine, i documenti scritti, i segni materiali, le baracche potrebbero restare muti, invisibili, inascoltati: c'è bisogno che qualcuno sappia interrogarli, riorganizzarli, riconsegnarli, con ricerche rigorose, con iniziative serie, con un giusto sentimento della "pietas" per il passato, alla "memoria comunitaria". Il passato va riconosciuto, "riguardato", anche nel senso di "avere riguardo" della sua complessità, delle sue contraddizioni, senza imbalsamarlo o mitizzarlo, senza piegarlo a piccoli interessi dell'oggi, a letture più o meno parziali e tendenziose.

   Naturalmente, non esiste un "passato oggettivo", ma proprio per questo è decisivo il legame attento, problematico, aperto che con esso riusciamo a stabilire. La "commemorazione sociale" o comunitaria può dirci molto del passato, ma anche del modo di intenderlo, e soprattutto del modo di vivere, di fondare il presente. Una società si caratterizza anche per come ricorda e per quello che decide di ricordare. Per quello che dimentica, per come lo dimentica. Ricordare il terremoto, commemorare i defunti, ripensare la ricostruzione, celebrare la rinascita, disegnare - anche a partire dalle rovine - nuovi percorsi storici e culturali, tutelare e salvaguardare il territorio, riflettere su come prevenire nuove catastrofi e in quale modo, rispettoso, valorizzare le proprie "risorse" (ambientali ed umane) sono operazioni faticose, lente, forse, poco "spettacolari" e mediatiche, ma indispensabili, oltre che doverose, per riconoscerci e per riaffermare una nuova vitalità dei nostri paesi.

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