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Conoscenza e tutela del patrimonio artistico e dei beni culturali della

città di Tropea

Lezioni tenute presso il Centro Territoriale Permanente per l'Istruzione

e la Formazione in Età Adulta

 

 a cura del Prof. Antonio Sposaro

I

Le origini di Tropea

   L'argomento è: "IL PATRIMONIO ARTISTICO E I BENI CULTURALI ESISTENTI A TROPEA", che, come voi ben sapete, costituiscono il patrimonio storico della nostra cittadina.

  Prima di entrare nel tema specifico, è opportuno dare un'idea di quella che è la nostra Tropea: delle sue origini mitiche, delle sue origini storiche, del suo sviluppo. In altri termini della sua storia. Storia che è esaltante, è qualificante; per cui noi dobbiamo essere orgogliosi di avere come patria natia la nostra cittadina, nei confronti della quale spesso e volentieri, ci comportiamo come dice Catullo: "Odi et amo", ti odio, ma nel contempo ti amo. Quando odiamo la nostra patria? Quando ci rendiamo conto che le cose non vanno per il loro giusto verso. Sono momenti, però, che lasciano subito il tempo che trovano in quanto sopraggiunge, direi imperiosamente, l'amore.

   Incominciamo naturalmente dalle sue origini.

   Quando sorse, da chi fu fondata? Mi rifarò a quello che è l'aspetto mitico delle origini e a quello che è l'aspetto storico. Voi sapete che è storia tutto ciò che è dimostrato, che è supportato da documenti scritti, quindi certi, perché, diversamente, se non ci fossero dei documenti, delle prove, quella non sarebbe storia, sarebbe leggenda. Mi rifarò anche all'archeologia perché voi sapete che l'archeologia, specialmente quando si parla di scavi archeologici, è bene considerarla come contenente la storia seppellita per secoli.  Con gli scavi archeologici, con i reperti archeologici, con tutto ciò che portiamo alla luce attraverso gli scavi, non facciamo altro che portare alla luce quella storia che per tanti secoli era stata seppellita, quindi capirete benissimo l'importanza dell'archeologia; e siccome, per quanto riguarda le origini di Tropea, spesso ci fermiamo sui "si dice", ecco perché io mi rivolgo all'archeologia per avere notizie certe. Dopo questa premessa entro nel vivo.

   1872: a Tropea si fa il primo censimento della popolazione dopo l'unità nazionale (1861) e si riunisce anche la commissione toponomastica per dare un nome alle vie. Questa commissione ha presentato, come fiore all'occhiello direi, un nome: ERCOLE, da dare alla piazza più importante del paese e la piazza più importante allora si chiamava "a chiazza", e scendeva dalla chiesa di S. Caterina fino a via Garibaldi, più giù del monumento a Pasquale Galluppi: quella era "a chiazza". Perché vi dico questo? Perché in prossimità del "Palazzo Naso", come vedremo, c'era il TEMPIO DI MARTE, poi diventato Tempio S. Giorgio, che è stato lì fino al 1884. Sopra c'era il CASTELLO, che cominciò ad essere diroccato nella seconda metà dell'800, intorno al 1880. Essendo il punto più importante, il ritrovo dei cittadini, allora hanno voluto dare il nome di Ercole. Perché Ercole? Perché era considerato il fondatore di Tropea, ed ecco come arriviamo alla parte mitica di quelle che sono le origini di Tropea. Ercole era considerato il fondatore mitico della nostra Tropea, tanto famoso che poi fu dato il nome al sedile chiamato "Port'Ercole", fu dato il nome "Portus Herculis", di cui parleremo; fu dato il nome "Forum Herculis", alias "Formicoli". Quindi la figura di questo mitico personaggio va conosciuta. Ercole era figlio di Zeus ed Alcmena; famosi sono i racconti per la sua sovrumana forza fisica di cui era dotato sin dalla nascita che gli cresceva di pari passo con l'età. Famose le fatiche d'Ercole. Un giorno, mentre era intento al pascolo delle greggi sul monte Citerone, in Grecia, nella regione della Beozia, fu invitato da due donne a fare una scelta che avrebbe caratterizzato il corso della sua esistenza: doveva scegliere tra due vie: la via dei piaceri, che naturalmente sarebbe stata priva di difficoltà, ma senza un degno scopo finale, senza qualcosa di esaltante, qualificante nella vita; l'altra quella delle virtù, che sarebbe stata faticosa perché disseminata di duri ostacoli. ma che infine lo avrebbe portato alla fama, alla gloria e, perché no, all'immortalità, come, infatti, è avvenuto. Senza indugio scelse la seconda, quella delle virtù, seguendo la quale compì le più strabilianti imprese tra cui le proverbiali 12 fatiche che lo posero al di sopra del comune livello umano, tanto da farlo apparire come una divinità, come un nume. Questo in Grecia, questo a Roma. Cerchiamo di analizzare questo personaggio:  mitico esemplare dell'individualismo ellenico, vero cavaliere errante nell'antichità, sempre al servizio della gente oppressa. Ecco come già si incomincia a simpatizzare con lui. Io non poco, molto! Perché sono stato sempre con i deboli; sono stato verghiano, con i vinti della vita, quindi al servizio della gente oppressa, mai di nessun potere, spinto dal suo fato e dall'ansia di superare sé stesso. Si avventurò, così, in rischiose imprese che generalmente rendono affascinante il protagonista. Quanto più grande è l'ignoto verso cui si va incontro, tanto più grandi sono le difficoltà che si incontrano. Il protagonista che viene fuori da queste imprese, da queste difficoltà, da questa grandezza di ciò che lui compie, espande intorno a sé un vero fascino. A Roma, dove era passato dalla Grecia con un formidabile esercito e con una non numerosa flotta, fu tale la venerazione verso quell'uomo-dio (era già considerato una divinità) che il giuramento fatto sul suo nome era per le parti contraenti un impegno sacro e pertanto inviolabile. Ercole, avendo appreso, stando a Roma, che dei principi detti "Giganti", nel fisico e nell'intimo, tiranneggiavano l'Italia, scende giù a sud per sottrarla al giogo cui era costretta a sottostare. Sono notizie queste fornite da uno scrittore alicarnasseo. Ricordatevi che in queste leggende, in queste favole, c'è sempre un pizzico di vero. Fu durante quella campagna militare che un giorno, mentre navigava per quei mari, il nostro personaggio intese il bisogno di fermarsi con le sue navi per gustare un po' di riposo. Si ancorò secondo una leggenda tropeana nei nostri lidi. Partendosene, vi lasciò un nucleo di gente, della sua gente, come usavano fare di solito i grandi personaggi. Come fece, secondo un'altra leggenda, lo stesso Scipione l'Africano nel 146 a. C. che lasciò dei cavalieri del suo squadrone al fine di dare origine ad un centro abitato che poi era importante per il suo porto naturale e quindi fu dato il nome di "Portus Herculis", di cui fanno cenno Strabone, nella sua "Geografia", VI libro; Plinio il Vecchio, nella sua "Naturalis Historia", I libro; Costantino Lascaris "De Illustribus Calabris Philosophis" che in proposito dice: "Nello stesso seno vibonese c'è Portus Herculis, antica città fondata da Ercole e che ora è la città di Tropea". Abbiamo, quindi, conosciuto questo personaggio, lo abbiamo visto bello, virtuoso, cavalleresco, ardimentoso, protagonista e fondatore di un centro urbano al quale fu dato il nome di "Portus Herculis" in omaggio a quello che era stato il fondatore. Ma quando avvenne questo? Conclusa vittoriosamente quella spedizione militare in Calabria ed in Sicilia contro i Giganti, Ercole si portò a Pisa per rendere grazie a Giove che era venerato in un tempio famoso, istituendovi in suo onore l'AGONE, un complesso di giochi da disputarsi ogni 5 anni proprio come le olimpiadi greche. Giochi che già si disputavano nell'antica Grecia nelle principali ricorrenze e festività e in occasione anche di funerali di importanti personaggi. Da un calcolo fatto da Eusebio di Cesarea, un altro scrittore antico cristiano, risulterebbe che la settima olimpiade, durante la quale sorse Roma, avvenne 500 anni dopo l'istituzione dell'Agone, per cui Tropea sarebbe più antica di Roma. Roma fu fondata nel 753 a. C. e 753 + 500 = 1253. Quindi Tropea, quel famoso "Portus Herculis", fu fondata 500 anni prima della fondazione di Roma, ovvero 1253 + 35 olimpiadi = 1428. Intanto il ricordo sempre vivo, la devozione sempre ardente verso Ercole mossero la comunità di Portercole ad ergergli un tempio dove gli potessero offrire tributi di onore e venerazione, resi ancora più solenni da particolari festeggiamenti che si svolgevano nel corso dell'anno e da pubbliche fiere in cui l'artigianato ed il bestiame erano oggetto di mercato, soprattutto con le genti vicine. A Tropea c'era  anche un tempio dedicato a Marte, ne parleremo. Ma non si è mai riuscito a scoprire dove poteva sorgere il tempio dedicato ad Ercole. C'è una mezza idea: quando fu restaurata la cattedrale (1927-31), scavando al di sotto di essa si è visto che c'erano dei resti di un antico tempio bizantino e l'abside centrale della nostra cattedrale poggia le basi proprio su questo tempio. Ora, siccome, generalmente, sui templi pagani venivano costruiti poi quelli cristiani... chissà???... è una mia supposizione su cui non mi soffermo. E' essenziale sapere che Ercole ebbe un tempio, ebbe onori, preghiere, venerazioni e poi, in suo onore, si istituirono fiere, mercati e attività sportive. Per questo fatto commerciale, cioè i mercati, l'allevamento, l'artigianato, quel luogo fu detto "Forum Herculis". In latino "forum" significa piazza da mercato, luogo da mercato. Quindi abbiamo "Portus Herculis", il centro; "Forum Herculis", il mercato. Famose erano le feste che si svolgevano in onore di Ercole, ma più famoso divenne nel corso degli anni il suo tempio per i responsi divinatori che si traevano, i famosi oracoli. I romani, infatti, si recavano per conoscere i responsi prima delle campagne militari (ad es. contro Cartagine, le guerre puniche). Voi sapete che, ad un certo punto, il politeismo cede il passo al cristianesimo che determinò la caduta degli dei. Però il nome di Ercole vaga ancora nelle nostre contrade. Ecco l'importanza di questo mitico personaggio perché a distanza di secoli noi ancora ne parliamo. Ma non ci possiamo fermare a ciò per le origini di Tropea. E' una leggenda, una favola. Cerchiamo di andare alla Storia. Il fondatore di Tropea allora fu Scipione l'Africano, quando, nel 146 a. C. dopo aver distrutto Cartagine, mentre rientrava a Roma, si volle fermare nelle nostre acque marine e, remore dell'aiuto degli dei, volle fare dei sacrifici; si sentiva in debito con gli dei per la vittoria ottenuta, fece dei sacrifici e, partendosene, lasciò i suoi militari, i suoi cavalieri perché formassero il primo nucleo di quella che doveva essere la popolazione di Tropea e, siccome aveva fatto questi sacrifici, che lui considerava un "Tropheum", da ciò, secondo alcuni, derivò il nome di Tropea. Quindi, noi abbiamo, secondo alcuni, Ercole fondatore 1200 anni prima, Scipione l'Africano, per altri, nel 146 a. C. La storia si fa con i documenti, i dati certi e allora noi ci dobbiamo rifare all'archeologia. Sono stati fatti degli scavi nel 1980 nel largo della cattedrale, poi in anni successivi ed anche in anni antecedenti. Sono stati trovati degli strati ascrivibili all'età del bronzo (2200-900 a. C.). Questi strati sono stati ascritti, collocati nell'età del bronzo in generale, ma, in particolare, sono stati circoscritti nel periodo che va dal 1400 al 1200 a. C. Sono dati inoppugnabili questi. L'archeologia è assiomatica. Quindi abbiamo queste notizie: sul perimetro roccioso di Tropea ci sono stati strati ascrivibili tra il 1400 e il 1200 a. C.; non solo! Ma vi era un vasto insediamento umano. E perché questi insediamenti solo nell'età del bronzo? Perché nell'età del rame (3500-2200 a. C.) l'uomo, nomade, col suo nucleo si stanziava nelle pianure: dove arrivava, si fermava. Nell'età del bronzo, invece, noi li troviamo in terreni alti, colline delimitate da pareti scoscese o da ripidi pendii, perché era una posizione ideale, strategica per poter controllare eventuali assalti di gente poco pacifica, o per niente pacifica. E, dato che Tropea aveva quella posizione ideale per la difesa (è a strapiombo sul mare), loro stanziarono lì. Questo avvenne tra il 1400 e il 1200 a. C. Ora, ricordate quando avvenne l'istituzione dell'Agone? Nel 1253 a. C.! Vedete che le cose coincidono. C'è però un fenomeno marino che fa pensare che il nome Tropea derivi da qualcos'altro: esso si svolge nel nostro mare. Ci sono due correnti terribili: una che parte dal golfo di S. Eufemia, l'altra dal golfo di Gioia Tauro; quando arrivano all'altezza di Capo Vaticano, più che incontrarsi, si scontrano in maniera così violenta che le due correnti ritornano là donde erano venute con una tale violenza che rendono impossibile, o comunque difficoltosa, la navigazione. Questo indietreggiare delle correnti è detto "retroversione" che i greci chiamavano "tropos", per cui, con il nome Tropos noi abbiamo non soltanto la raffigurazione di questo fenomeno marino, ma anche l'indicazione di una violenza atmosferica. Tant'è vero che, ancora oggi, a Vibo Marina e a Pizzo, quando si avvicina un temporale, una forte e violenta perturbazione atmosferica, dicono che sta arrivando "na tropea", con quel nome, infatti, loro vogliono indicare un violento perturbamento dell'atmosfera con conseguente pioggia, vento, ecc... (Eccovi un aneddoto, un fatto a me accaduto che riguarda quest'argomento: qualche anno fa mi trovavo sul porto a Tropea, quando passò un motoscafo i cui piloti mi chiesero dove potevano fare rifornimento; io risposi a Gioia o a Vibo Marina. Loro, dovendo andare in Sicilia, si avviano per Gioia Tauro. Dopo una mezz'oretta, ritornarono dicendo che non erano potuti andare avanti per la forte corrente marina; si trattava di un'imbarcazione leggera). Allora, niente di più facile che la denominazione di Tropea venga da "tropos".

II

   Abbiamo cercato di dare una fisionomia alla nostra Tropea e siamo partiti dall'età del bronzo rifacendoci ai ritrovamenti archeologici del 1400-1200 a. C. coincidenti con il famoso agone voluto da Ercole a Pisa. Ercole, che, secondo la leggenda, sarebbe il fondatore di Tropea. Siamo poi andati oltre, Tropos (fenomeno marino); Tropheum (Scipione l'Africano). Cerchiamo di seguire questa popolazione. Fino a quando stette nel nostro perimetro roccioso? La risposta c'è: fino all'VIII secolo a. C. Secondo sempre le indagini archeologiche, infatti, pere che il nostro territorio si sia spopolato dal VII al VI secolo; poi nel V secolo si ripopolò in maniera definitiva. Quindi di storia vera e propria si può parlare a partire dal V secolo a. C. Dall'età del bronzo al V secolo quali sono state le vicende politiche, storiche, umane? Noi abbiamo avuto i coloni greci (VII-III sec.) e poi la dominazione romana (III a. C. - 476 d. C.). Qual è l'aspetto antropologico? Nel periodo del bronzo l'uomo è dedito all'allevamento, all'agricoltura (in quel periodo vedono la luce l'ulivo e la vite), all'artigianato. Questo centro abitato, perciò, si è strutturato con delle mura di difesa e noi troviamo un tratto di queste mura di cinta scendendo alla marina del vescovado dalla strada della Porta Nuova; mura che sono attribuite al generale di Giustiniano, Belisario, che, tornato dalla vittoria contro i Goti (535), volle fortificare Tropea costruendo queste mura che si chiamano appunto "le mura di Belisario". Tratto ancora oggi visibile lungo la discesa verso la marina. Abbiamo, poi, il Castello che esisteva già nel 1266, che occupava un vasto territorio a Tropea da Palazzo Toraldo e si estendeva verso la piazza del cannone; era il caposaldo della difesa di Tropea con le sue mura, con i suoi merli, con le sue feritoie. In questo periodo, dalla parte della sagrestia della cattedrale, dalla parte del seminario, c'era una chiesa "La Maddalena" (adesso è demolita) e dove c'è adesso la villetta della cattedrale c'era la cosiddetta "Munizione", un edificio adibito proprio a difendere Tropea. Lì c'era la guarnigione militare, lì c'erano i cavalli del reparto militare, lì dal '500 in poi esisteva un cannone. Tutto questo faceva di Tropea un centro molto difeso? E' così? Assolutamente no! Gli arabi, infatti, noi li abbiamo avuti qui, purtroppo, per ben 2 volte: dall'842 all'880 e poi successivamente. Non solo, ma abbiamo avuto anche quei lestofanti dei pirati turchi che sono penetrati più di una volta a Tropea. Quindi, si vede che il sistema difensivo faceva acqua un po' da tutte le parti, era nullo o quasi! Naturalmente essendoci le mura, la gente doveva pur uscire la mattina e la sera per andare al lavoro... c'erano, infatti, le cosiddette porte. Una era in prossimità di Porta Vaticana, l'attuale ristorante, dove ora c'è il cannone; l'altra era dove c'è adesso la discesa della cattedrale verso la spiaggia, la marina si chiamava "porta di mare". Poi ci fu un'altra porta, la terza porta costruita dopo il terremoto del 1783; terremoto terribile! Ci sono state ben 80 vittime a Tropea e tanti edifici crollati! Tanto che per sopperire alle case crollate si costruì allora l'attuale "rione delle baracche". E per dare alla gente la possibilità di entrare ed uscire si costruì questa terza porta detta "Porta Nuova", donde venne poi la denominazione all'ex mercato, "iamu a porta nova".

   Gli anni passano, incomincia il progresso, ci sono nuove esigenze e allora si pensa di abbattere le mura e il castello che comincia ad essere demolito intorno al 1828. La demolizione si concluse nel 1884 per dare origine all'attuale Corso Vittorio Emanuele. Si diceva allora con un certo entusiasmo: "Demoliamo questi edifici per lasciar passare il progresso!". Oggi diremmo: "ASSASSINI! Avete demolito la Storia!" C'è un paesino in prossimità di Firenze rimasto medievale come era, che è un gioiello! Poteva essere così anche Tropea! Si demolirono quindi le mura, si formò un tratto di una certa estensione del Corso Vittorio Emanuele che poi fu allungato fino all'affaccio a mare, demolendo, poi, per primo l'ex tempio di Marte, di cui parleremo, sorto nel II sec. e poi dedicato a S. Giorgio e poi ancora a S. Domenica. In realtà era già fatiscente; col tempio di Marte si demolirono anche alcuni palazzi che avrebbero ostruito il passaggio fino in fondo e così abbiamo avuto l'ultimo tratto dell'attuale Corso Vittorio Emanuele. Usando la stessa frase dei nostri antenati, dico: "Il progresso aveva la possibilità  di fare questo percorso dall'alto in basso, dalla collina al mare!" Guardiamo adesso la struttura edilizia. Passate per i vicoli e vicoletti? A voi interessano le strade larghe, le vetrine; a me piace andare nel centro storico di Tropea e mi riporto, stando lì, alla realtà dei secoli passati. Mi riporto a quella storia e, perché no, anche ai fatti che vengono fuori soprattutto quando ci sono certe condizioni particolari dell'ambiente. Sarà l'oscurità, saranno altri motivi, certo è che ci sono stati dei fatti che io ho conosciuto nel corso di questa mia frequentazione. E quindi, in base alla conoscenza di questi fatti (che possiamo considerare favole) come ce li raccontavano i nostri nonni, rivedo la gente, i balconi, i lumicini, la mancanza di vita per le strade che c'è ancora oggi e mi piace pensare che questo è il cuore di Tropea: questa è la vera Tropea. Se passate in questi vicoli, voi vedrete il medioevo; quei vicoletti stanno ad indicare l'età medievale, quando certe regole edilizie avevano un senso, un'esigenza. Perché questi vicoli? Perché la gente voleva essere unita, voleva stare insieme, volevano essere vicini. Quelle case addossate l'una all'altra, dirimpettaie di un metro, due metri, stavano ad indicare proprio questa esigenza umana: stare vicini e non isolati. Noi siamo soli (ricordate la poesia di Quasimodo, del '900), l'uomo è solo. Allora c'è stata questa strutturazione edilizia medievale. In seguito, voi lo sapete, al gotico, che è tipicamente medievale, è successo il rinascimentale; abbiamo il periodo umanistico-rinascimentale ('400/'500), poi abbiamo il barocco ('600), il rococò ('700), ecc... Ebbene, qui a Tropea abbiamo questo susseguirsi di stili; c'è stato qualcosa di rinascimentale, qualche cosa di barocco, ma soprattutto, abbiamo avuto queste manifestazioni, questi stili dopo il terremoto del 1783. Terremoto avvenuto poco prima mezzogiorno: immaginate quanti fabbricati sono stati distrutti, quanti segni di cultura e civiltà, quante lacrime, quante rovine, e ben 80 morti. Naturalmente quei "mezzi sigari", chiamiamo così ciò che era rimasto di una casa, non potevano stare così. Alcuni edifici erano stati rasi al suolo, altri a metà, di altri erano rimasti "moccolini". Allora, espressamente dal re di Napoli fu mandato qui un ingegnere, Ermenegildo Sintes, il quale attuò una specie di piano regolatore, cioè ha raso al suolo completamente le case distrutte o semidistrutte, non sostituendole con altri edifici, ma procurando dei "larghi" che hanno poi caratterizzato quella che è la struttura di Tropea. E non solo l'attuale Largo Galluppi, davanti a S. Francesco (Liceo Scientifico) che, prima del 1783, non era come ora: c'era una continuazione di palazzi (Palazzo Braghò) fino alla chiesa di S. Demetrio, per cui quel larghetto che c'è oggi allora non c'era. C'erano case e stradine a destra e a sinistra per uscire o per andare alla chiesa di S. Demetrio. Poi furono creati Largo Galluppi, Largo Grimaldi, Largo Spanò ecc... Insomma sono stati creati tanti larghi con la demolizione di tanti edifici, per cui Tropea ha subito una nuova impostazione, un nuovo volto dal punto di vista dell'architettura settecentesca. Noi abbiamo, infatti, i cosiddetti palazzi patrizi, specialmente in Largo Galluppi, che era il loro largo; lì svolgevano la loro vita, lì uscivano, passavano momenti di svago. Case, quindi, con un certo stile: c'è perfino Vanvitelli, Palazzo Lo Torto e Palazzo Fazzari, che è tra l'ospizio di S. Rita e "a ripicea", famosa strettoia dove si ammira il mare. Ecco un altro aneddoto del periodo: un allievo di Vanvitelli si era innamorato di una ragazza e la voleva sposare; iniziò a costruire la casa; e se voi entrate, infatti, l'entrata conserva quello che era lo stile, il gusto dell'epoca, un barocco un po' inoltrato verso il '700. I genitori di lei non volevano e lui quindi, abbandonato tutto, se ne tornò a Napoli. Rimase, però, quest'impronta.

   Abbiamo, poi, i famosi portali, che sono una caratteristica, una peculiarità di Tropea. Alcuni di questi portali, alla sommità, come ornamento architettonico, avevano dei mascheroni, delle facce di animali o di uomini a cui i tropeani diedero un significato contro il malocchio. E ci sono ancora!!! Noi, quindi, abbiamo avuto quest'impostazione, abbiamo avuto il cinquecentesco, che vedremo nelle chiese, abbiamo avuto il barocco (chiese, palazzo D'Amore), e poi la corrente artistica del '700 e via dicendo. Tropea presenta, allora, tanti aspetti, tanti volti (sempre dal punto di vista artistico, dello stile architettonico).

   Adesso entriamo nuovamente nell'aspetto antropologico e facciamo un discorso logico, razionale, a partire dal secolo. Gli abitanti della rocca di Tropea, prima della colonizzazione greca erano politeisti come tutti i primitivi. Nel periodo greco l'uomo era portato a credere a qualcosa, sarà il sole, sarà la luna, sarà Giove, Saturno, Dio. A Tropea, come si è detto, Ercole aveva un tempio dove venivano a fare gli auspici; poi veniva venerato Nettuno che, sembra, avesse un tempio anche lui (stando a quanto dice l'abate Sergio, storico tropeano vissuto tra il 1640 e il 1720). Era il dio del mare, e doveva proteggere i naviganti tropeani perché, oltre all'artigianato e all'agricoltura c'erano i commerci, specialmente con le isole Eolie, con Lipari, dove c'erano giacimenti di ossidiana, una pietra vetrosa di colore verde scuro, di cui si trovano in abbondanza elementi, il che ha fatto pensare che dovessero essere frequenti, assidui i rapporti commerciali con Lipari; ci doveva, quindi, essere una qualche divinità che proteggesse i commercianti, i naviganti, che intraprendevano quel viaggio. Ecco quindi la venerazione di Nettuno. Veniva venerata anche Giunone, dea della vita femminile e, precisamente, della castità delle fanciulle, del matrimonio e del parto. Si venerava Minerva, protettrice delle professioni, delle arti e dei mestieri. Veneravano anche Clio, musa della Storia, e Calliope, musa della poesia epica. C'è un tratto di strada tra Tropea e Parghelia che è chiamata "Criu", deformazione di Clio; come c'è un tratto di strada tra S. Domenica e Ricadi che è chiamato "Caiopi", Calliope. Dulcis in fundo, veneravano Marte. Non fu venerato Bacco, dio del vino, perché Bacco fu considerato uno sporcaccione, tant'è vero che poi sono venuti fuori i "baccanali", feste che erano delle vere e proprie orge. Né fu venerata Venere, che ad un certo punto fu identificata con Afrodite e siccome era la dea degli amori più illeciti, esistevano templi dove le sacerdotesse erano prostitute, e, quindi, era Afrodite protettrice delle prostitute. Cerchiamo, allora, di tracciare il volto di questa società. Era una società in cui c'erano dei valori che acquistavano una particolare sacralità, c'era quello che può volere una sana famiglia, una famiglia impostata su sani principi. Amavano Marte per essere protetti nelle loro imprese marziali, nelle lotte. Quindi, anche se possiamo dire che il carattere bellicoso non era una predominante, erano preoccupati soprattutto dall'esito di eventuali imprese belliche. Marte aveva un tempio sorto nel periodo romano (II sec. a. C.) tra palazzo Barone e palazzo Naso. Era a cella tripartita, cioè aveva tre navate con pilastri (a due a due) poggiati su un basamento ai lati delle due porte di ingresso, che si raggiungevano grazie ad alcuni gradini; era, in pratica, di fronte all'orologio. "Era un tempio", così diceva padre Antonio Barone, che scriveva nel 1690, "vago di struttura (cioè bello e magnifico)" dove si veneravano, oltre a Marte, anche Minerva, di cui è stata trovata una testina del V/VI sec. a. C., ed anche Giunone di cui furono rinvenute una statuetta bronzea ed una testina di terracotta alta 6 cm (mai ritrovate). Naturalmente, con l'avvento del cristianesimo non poteva durare un tempio pagano. Proprio per la sua bellezza il tempio non fu abbattuto, ma fu dedicato a S. Giorgio, santo martire del II sec. d. C. e poi quando nel 1539, attiguo ad esso, nell'attuale palazzo Naso, sorse il monastero di S. Domenica, quel tempio, ex di Marte, ex di S. Giorgio, fu dedicato a S. Domenica, santa tropeana. Prima di essere tale, la chiesa dei padri redentoristi, nel VII sec. divenne la prima cattedrale di Tropea. Il primo vescovo di Tropea è un certo Giovanni che nel 649 partecipò ad un concilio romano: sono dati certi, inconfutabili, tratti dalla storia dei concili. A dire il vero alcuni storici parlano dell'esistenza di un certo Laurentius, Lorenzo, che sarebbe stato il primo vescovo, molto tempo prima di Giovanni; perché avevano letto negli atti di quei concili che c'era un "Laurentius episcopus trebiensis", interpretato come "tropiensis" senza pensare che dicendo così si poteva alterare la storia; "Trebiensis" significa "di Trevi", mai "di Tropea"! Nella sagrestia della cattedrale ci sono tutti i vescovi e mi sembra di aver visto questo Laurentius che è quindi un falso storico. Noi possiamo parlare con dati certi dal 649; è storia, registrazione dei concili e quindi noi abbiamo questo Giovanni, primo vescovo di Tropea. Parlare di vescovo significa parlare di cattedrale; quindi 649 è VII sec., la cattedrale ancora non c'è. Il vescovo è nel tempio di S. Giorgio, ex tempio di Marte. Poi passò nella chiesa dei Liguorini, che fu costruita tra il VII e l'VIII secolo e che, quindi, ancora non c'era nel periodo di Giovanni. L'ex tempio di Marte fu, quindi, la prima cattedrale di Tropea e, poiché pericolante (gli anni passano!), per la sua vecchiaia il vescovo Mandina (a Tropea dal 1640 al 1645) lo rinforzò e abbellì, facendo fare a questo tempio bella mostra di sé fino al 1884, quando, poiché cadente, fu abbattuto; anche perché si doveva prolungare il corso Vittorio Emanuele per lasciar passare il progresso! Abbiamo finora visto la struttura cittadina, passiamo all'attività commerciale nel corso dei secoli. C'era il commercio del corallo, fiorente nei nostri lidi. L'abate Sergio raccontava che sotto una barchetta che aveva attraversato la località detta "sotto il cannone", quando fu per essere ancorata, fu trovato del corallo sotto la carena. Il corallo veniva pescato e poi venduto a commercianti che venivano espressamente da Napoli; parlo del '500-'600. Poi c'era il commercio del vino, molto intenso nel '300/'400 perché era squisito; era considerato come il nettare degli dei, tanto che veniva richiesto non soltanto per le tavole dei signori della Sicilia, della Calabria e dell'Italia, ma anche della Francia. I nostri battelli trasportarono il vino fino a Marsiglia, fino a Limoges, fino in Inghilterra, tanto era pregiato questo vino. Poi, tra il '700 e l'800, abbiamo due fabbriche per la lavorazione del cuoio e delle ceramiche artistiche. Nell'800, poi, un pastificio in quella strada che porta dalla Porta Nova al seminario ed una distilleria alle Baracche che stette a cavallo dell'800 e del 900. Tutto qui? Oggi noi diremmo: e il sociale? E la povera gente? E l'umanità? Esisteva qualcosa per loro? C'era, sì che c'era! C'era il cosiddetto Monte di Pietà di cui ancora esiste l'edificio e una targa commemorativa sulla via Roma angolo Vicolo Scrugli: un ente di credito, una specie di banca, un credito dato su pegno con alla base un capitale costituito da donazioni, con lasciti fatti da generazioni. Il primo sorse a Perugia nel 1462. Questi monti di pietà furono voluti da alcuni ordini religiosi, specialmente dai francescani. A Tropea lo troviamo dal 1599. Quantunque lontano, a distanza di più di un secolo, tra le prima città e cittadine di tutta l'Italia. Il primo lascito fu effettuato dal barone Scipione Galluppi, parente di Pasquale Galluppi; poi ci furono altri lasciti e lo scopo del monte era questo: concedere ai bisognosi di danaro prestiti su pegno; contribuire con un sussidio annuo al mantenimento del locale ospedale e dell'asilo infantile; celebrare messe per gli ammalati; fornire medicine a domicilio agli ammalati poveri. Fu costruito in Via Roma nel 1599, appunto, dal vescovo Tommaso Calvo, dopo che questi aveva fatto una grossa offerta, un grosso lascito in denaro. Era dotato di una cappelletta, che sulla strada è ancora esistente, di stile gotico e funzionò fino al primo ventennio del XX secolo, nel '900. C'era, poi, l'ospedale, già esistente nel 1257 (Del Gesto Vaticano), annesso ad una chiesa detta S. Maria dell'Ospedale, dove poi nel 1598 fu edificato l'attuale convento della Sanità. Tutt'oggi quella strada che porta dal Calvario al Convento nella toponomastica cittadina si chiama "Via ospedale". Gli ospedali, generalmente, consistevano in un edificio piuttosto modesto adiacente a qualche chiesa da cui prendevano il nome.

III

   Abbiamo visto in quale periodo Tropea ha posto le sua fondamenta, nel periodo del bronzo, 1400/1200 a. C.; abbiamo parlato di una popolazione, di uno stanziamento umano che abbiamo visto fino all'VIII sec. perché, stando agli studi archeologici, nel VII e nel VI sec. a. C. il perimetro roccioso sembra sia stato spopolato per essere ripopolato dal V sec. in poi ininterrottamente. Abbiamo visto, poi, da dove deriva il nome "Tropea"; Tropheum (trofeo) di Scipione l'Africano, Tropos (retroversione) incontro-scontro di correnti marine (golfo di S. Eufemia - golfo di Gioia Tauro). Io propendo per Tropos. Sappiamo ora che la gente era formata da abili naviganti e da commercianti. Abbiamo visto il cursus di questa gente; le mura di cinta costruite da Belisario, il fatto che nel medioevo c'era il bisogno di stare vicini e allora si costruivano gli edifici addossati l'uno all'altro, dando origine, così ai vicoli, alle stradine che oggi sono un tesoro per noi. Tropea, quindi, stando ad una piantina planimetrica anteriore al 1783 (anno del famoso terremoto), aveva case addossate con qualche spazio bianco. Dopo il 1783, là dove c'era la casa, l'agglomerato, c'è il largo, perché l'ingegnere Ermenegildo Sintes attiva il suo piano regolatore, ricavando dei larghetti, per cui la fisionomia storica cambia. Il tutto sempre per quanto riguarda la cerchia antica di Tropea, cioè quella che va da Palazzo Toraldo, scende per Via Regina Margherita e arriva alla villetta dove c'è il cannone; questi erano gli antichi confini di Tropea. Abbiamo parlato del periodo del politeismo, della venerazione che i nostri antenati ebbero, poi, per Ercole. Ci fu, poi, il cristianesimo, la caduta del tempio di Marte, il monte di pietà. Si può parlare ancora di qualcos'altro: il cosiddetto Ritiro (Vico) delle Pentite, così denominato perché nel 1731/1750, dopo la soppressione del monastero di S. Domenica, che era stato installato là dove oggi c'è il palazzo Naso, attiguo proprio all'ex tempio di Marte, ex S. Giorgio, risultando in attivo le rendite, dietro suggerimento di due padri (p. Angelo d'Acri e p. Pasquale di Olivadi, francescani minori - era vescovo allora Guglielmini, a Tropea dal 1731 al 1750), pensarono, quindi, di raccogliere in questo Ritiro tutte le donne che avevano condotto una vita traviata. Pentitesi poi, appunto (ed ecco il motivo della denominazione) si erano ritirate in questo Ritiro. I gesuiti, però, lo chiamavano Conservatorio delle Pentite; unico genere qui a Tropea e i gesuiti se ne facevano un vanto perché grande era stata la loro azione missionaria a Tropea. Quanti erano gli abitanti qui a Tropea? Nel 1271 c'erano a Tropea, compresi, però, quelli di Capo Vaticano e dei villaggi vicini, 5508 abitanti. Nel 1545, solo Tropea aveva 2707 unità. Nel 1561, 3104. In questo periodo demograficamente aumenta la popolazione, nel 1594, 3124. Nel 1648, c'è una diminuzione, 3074. Nel 1669, 2023 (il '600, secolo di crisi, secolo non definito, barocco, G. Battista Marino diceva: "E' del poeta il film, la meraviglia, chi non sa far stupir vada alla striglia"; non c'è il senso della personalità. Lo slogan è: "O con la Francia o con la Spagna purché si mangia"). Nel 1783, 4485. Nel 1815, congresso di Vienna, 4277. Nel 1849, 6738. Nel 1861, 5332. Nel 1871, 5734. Nel 1881, 5836. Nel 1901, 5906. Nella prima metà del '900 Tropea superava le 6000 unità, per attestarsi a 7000 dopo il 1951. A tutt'oggi siamo al di là dei 7000 abitanti. E come cultura come stiamo? Già nel '700 c'era un maestro di umanità (Lettere); pare si chiamasse Trunc. Poi abbiamo avuto l'Accademia degli Affaticati, che va dal XV sec., 1400, fino al XIX sec., 1800, con alti e bassi. Questo è un fenomeno impressionante perché tutte le altre accademie esistenti nelle altre città hanno avuto vita breve. Quella di Tropea è durata fino all'800, naturalmente andando avanti stancamente. Questi grandi consessi culturali noi li abbiamo avuti nelle grandi città e in cittadine importanti. Si trattava di un'accademia vera e propria; non era isolata, aveva degli agganci con l'Accademia di Brescia, con quella di Napoli e di Cosenza, e c'erano i cosiddetti accademici per corrispondenza. Si scambiavano i prodotti letterari per cui noi non possiamo parlare di un circolo chiuso, ma di una istituzione culturale di ampio respiro, dove partecipavano le menti più eccelse. Infatti noi abbiamo avuto Pasquale Galluppi, Francesco Ruffa e altre persone illuminate dalla cultura ed anche ecclesiastici, per cui noi possiamo dire che dal punto di vista culturale l'Accademia era molto importante. Perché Affaticati? Perché c'era il vezzo di darsi nomi originali. C'era l'Accademia degli Intronati, degli Storditi, degli Stanchi ecc..., o forse perché era così che si sentivano gli accademici!!! Affaticati perché con onorevole fatica attendevano agli studi delle scienze all'acquisizione delle virtù. Ci è rimasta una ricca produzione letteraria.

   Nel 1605 abbiamo avuto un collegio dei Gesuiti, molto colti, durato circa 200 anni, da cui sono uscite menti eccelse non soltanto per quanto riguarda il ramo ecclesiastico, ma anche la parte laica. Questo collegio, quindi, compì un grande compito sociale. Cultura è elevazione, è acquisizione non soltanto di elementi scientifici o letterari (diceva Cicerone nelle Tusculanae Disputationes: "La cultura penetra nell'intimo dell'uomo e ne ingentilisce, ne perfeziona, ne raffina l'animo umano"). Ecco quindi l'aspetto sociale di quel collegio. La cultura non è fredda quando produce qualcosa di sublime, quando penetra nell'intimo umano e ne raffina il mondo dei sentimenti. Poi il ministro Danucci del regno di Napoli, poiché vedeva nei Gesuiti un certo antagonismo dal punto di vista politico, promosse la soppressione dell'ordine e i Gesuiti furono costretti ad andarsene. Io ho letto la storia della partenza: di notte, all'alba, scesero quei quattro padri con due frati nella chiesa a pregare; avevano in mano un cero e quando si è presentato il governatore non hanno fatto resistenza e con quel cero acceso se ne andarono, naturalmente non senza aver rivolto una preghiera a Dio. Da allora in poi la chiesa fu chiusa.

   E poi ci fu il seminario, che fu nel 1872; ebbe la durata di un anno, ma poi si riprese successivamente. Lì erano accolti anche laici con vocazione allo studio.

   C'è un altro aspetto, poi. Tropea fu città demaniale in perpetuo. Era talmente privilegiata, amata! Qui abbiamo avuto tanti personaggi importanti. Ferdinando IV, inoltre, veniva spesso per trascorrere diversi giorni nella casa dei Liguorini e saliva da una scaletta intagliata nella roccia. Poi abbiamo avuto personalità della dinastia dei normanni, una certa Flavia, figlia del governatore di Reggio Calabria, della quale era innamorato quel lestofante di Barbarossa II. Erano poche le città che avevano questo privilegio. Dipendevano direttamente dal re, rappresentato da un suo vicerè. Essendo la città, appunto, in perpetuo demanio, veniva esentata da alcuni oneri fiscali: non si pagavano tasse. E questo determinò un flusso di gente che, avendo una certa posizione sociale, se ne veniva a Tropea.  Venivano oriundi dalla Spagna, dall'Austria, da ogni parte d'Europa per formare, poi, la classe cosiddetta nobiliare. La nobiltà aveva una sua collocazione, un suo ritrovo, il cosiddetto Sedile Portercole, dove c'è l'attuale Pro-Loco. Lì anticamente c'era la cosiddetta "Bagliva", una specie di magistratura; si riunivano là e decidevano. Poi ad un certo punto, finita la "bagliva", rimase inutilizzata per dare posto nel 1703 ai nobili. Ma prima, dove si riunivano? Nella chiesa cosiddetta della Maddalena, alle spalle della Cattedrale, dietro il seminario, demolita, poi, nel 1727. Lì discutevano problemi di casta, problemi comuni, problemi che interessavano loro, ma anche la collettività. I sedili, nei secoli scorsi, esistevano, anteriormente al 1700, nelle città, ma anche in centri minori importanti. E allora la mentalità era aperta in genere, per cui, pur essendo a distanza, da un punto di vista chilometrico, dai grandi centri e senza vie di comunicazione, il sapere che ci fossero qui queste istituzioni ci fa pensare in positivo. Poiché, poi, si discutevano anche problemi cittadini, si formò un'altra classe, i cosiddetti Onorati del popolo, non nobili, gente della borghesia che veniva su da sola, studiando. Tropea, perciò, era governata dagli eletti dei nobili e dagli onorati del popolo. Si riunivano, quindi, in questo sedile fino a quando, nel 1856, non si passò nei vecchi locali del Municipio, già sede dei padri Liguorini. Questi rappresentanti del popolo si riunivano, quindi, là.

   La vecchia bagliva non era come oggi. C'è stata una modifica, una sopraelevazione, per quanto riguarda la torre campanaria e per quanto riguarda, poi, l'orologio che fu fatto da un oriundo tropeano, un certo De Vita, poi trapiantatosi a Napoli per motivi di lavoro, a cavallo tra l' '800 e il '900. La torre campanaria fu fatta nel 1703; sotto la torre campanaria esiste ancora lo stemma in marmo (di grande importanza, fa parte dei beni culturali) del sedile Portercole. E' costituito da un leone che sostiene nella branca sinistra la clava di cui si serviva Ercole; una corona principesca sta per timbro al di sopra, mentre a sostegno laterale dello scudo ci sono un leone da una parte e un idra (il serpente a 7 teste ucciso da Ercole) dall'altra. Il cimiero è una fenice nel rogo, la quale tiene in bocca un nastro con il motto di Manlio, poeta latino vissuto nel II/III sec., "Renovant incendia nidos" = Gli incendi rinnovano i nidi. E' un'allegoria: il leone e l'idra, con la loro uccisione, rappresentano le prime due proverbiali fatiche di Ercole; al di sopra, le fenice morta nel rogo poi sarebbe risuscitata per vivere ancora a lungo. Tropea fu sotto gli svevi, i normanni, gli angioini, gli spagnoli, ma fu sempre tenuta in considerazione.

IV

La Michelizia

   Che cosa intendiamo noi per beni culturali? I beni sono tutte quelle cose che si possiedono e che possono essere di utilità a noi e agli altri. Quando si parla di beni culturali ci si riferisce a quelle cose che fanno parte dell'arte, della storia, che sono di interesse comune, cose di cui un popolo è in possesso e di cui si deve essere gelosi custodi ai fini di una integrazione culturale. Non sempre si sa tutto. Socrate, prima di morire, diceva: "Mi rammarico di non sapere tutto ciò che vorrei sapere!" Quindi i beni culturali servono per integrare la nostra formazione. Parlando di beni culturali noi entriamo nella storia, che è narrazione fedele e precisa di fatti veramente accaduti. Sappiamo che la Storia certe volte è venata anche di leggenda, che può essere solo tradizione: non va ripudiata, ma presa con un certo rispetto. Entriamo nella Storia e nell'Arte, perché i beni culturali racchiudono in sé una storia, una leggenda a volte, ma anche arte. Che cos'è l'arte? E' idea l'idea del soggetto pensante, l'uomo. Idea che viene trasmessa con il pennello sulla tela, dal pittore, che viene trasmessa sul marmo, sul gesso, con lo scalpello dallo scultore, che viene trasmessa sulla carta con la penna dal poeta e dallo scrittore. E quanto più noi riusciamo ad esternare, a realizzare questa idea, tanto più noi facciamo arte. Noi dobbiamo guardare la naturalezza, la spontaneità del prodotto artistico, se, cioè, quell'idea che ha avuto il pittore, lo scultore, lo scrittore è stata fedelmente espressa. Arte è idea, ma anche sentimento; potrei dire, infatti, che, a volte, il soggetto prodotto dall'artista contiene non soltanto l'arte, ma anche il sentimento, dal momento che spesso noi diciamo "noto", "vedo", "leggo" in questo quadro, in questa scultura; "vedo" quella espressione, quell'aspetto, in quel volto sembra che l'autore abbia trasmesso il proprio cuore. E' così! Ha trasmesso il suo mondo interiore (ad esempio il Crocifisso della Cattedrale: Cristo nel volto ha rassegnazione del dolore). Arte è trasmissione dell'idea e sul marmo e sul gesso e sulla tela.

   Nel tratto finale di una stradetta di fronte alla chiesa del Carmine, a sinistra andando verso Parghelia, che era l'antica strada che portava al santuario di S. Francesco di Paola, emerge da un verde agrumeto, un tempo molto più ampio e fitto, una chiesa di assoluta purezza architettonica nella sua linearità e nella sua semplicità, in cui sembra aleggiare lo spirito francescano e che presenta anche motivi di imponenza e di solidità. Emerge in quella quiete in maniera monumentale; attualmente dissacrata, era dedicata anticamente a S. Maria della Neve, ma da voce popolare era stata fatta conoscere con il nome di chiesa di S. Maria Michelizia (la fantasia popolare lavora e, a volte, storpia i nomi) o più semplicemente di chiesa di Michelizia, un nome ricavato dalla ridotta fusione di Michele Melizia. Si trova nella profonda quiete ed i solenni silenzi della campagna. Ci rivela con le sue pagine murarie due volti della sua storia, completata dalla voce del popolo e quindi diventata leggenda. E lo storico tropeano Francesco Sergio, che visse tra il 1640 e il 1720 (scrisse uno zibaldone in latino, si sa), dall'esame dell'esterno del tempio, particolarmente sul lato destro, ebbe modo di rilevare, ad un certo punto, l'accostamento di due parti. Mettiamoci, quindi, con la fantasia di fronte a questo monumento: spostandoci piuttosto a destra si osservano due parti distinte per stile, ma talmente in sintonia l'una con l'altra che sembrano tutt'uno. Per il loro diverso stile e per quello degli estradossi delle finestre (sono le parti superiori delle arcate) sono riconducibili al '600 la navata centrale e al '400 la parte posteriore, l'abside. Il portale è di stile barocco. Nell'interno, un classico arco trionfale bellissimo in pietra. L'arco trionfale si usava nelle antiche basiliche cristiane e doveva dividere il presbiterio, l'abside dalla navata. Quest'arco trionfale suggella l'unione di questi due corpi murari, costituiti appunto dalla navata e dal presbiterio che si eleva con le sue tre pareti per concludersi in alto a forma di volta. Badate bene che la cupola della chiesa di Michelizia si vede da ogni parte. Seppur costituita da due strutture di epoca e di stili diversi, la fabbrica presenta nel suo insieme un aspetto unitario con la solenne severità delle sue linee prive di tutto ciò che attiene al carattere ricco ed eccessivamente ornato del barocco (termine del '600 che significava esagerazione, non soltanto nell'arte, ma anche nella prosa, nella poesia, con le iperboli, le metafore ecc...). Non si coltiva bene questa semplicità, questa schiettezza nei coloriti ed incorniciati quadri geometrici del soffitto. All'esterno ed anche all'interno c'è una semplice, schietta monumentalità, solenne. Testimonianza della devozione di un'epoca storica ma anche di un certo valore artistico si possono considerare i pochi contenuti sacri di quella chiesa. All'inizio della parete di sinistra si osserva un dipinto, olio su tela, con l'immagine di S. Antonio di Padova che è detto degli Abbandonati. Nei tempi passati era oggetto di grande culto, particolarmente da chi era afflitto dalla miseria, da umane sventure e si riteneva abbandonato. Più che altro quel dipinto è una memoria storica, ma nient'altro, perché ci riporta alla dominazione spagnola che in Calabria si protrasse dal 1504 al 1713. L'autore, infatti, è un sergente maggiore spagnolo che evidentemente volle esprimere la sua devozione al santo con il suo lavoro che accompagnò con la seguente dedica: "El sergente.... fecit" (1600); più in là, inquadrato in una cornice barocca, c'è un dipinto su tela che raffigura la Madonna della Lettera, tanto venerata dai messinesi, ai cui ambasciatori, che nel '42, secondo una tradizione, si erano recati a Gerusalemme per renderle un devoto omaggio e chiederle la sua benedizione per Messina, Lei consegnò una lettera (da qui il nome) in cui benediceva i messinesi e la loro città. In effetti lacunoso è il testo di questa lettera qui a Michelizia, in latino, trascritto dall'autore del dipinto nella lettera che la Vergine porge agli ambasciatori. Come pure travisati e poco leggibili sono quei vocaboli greci che sono disposti ai lati della testa della Vergine. Pur se privo di valore artistico, il quadro riveste una certa importanza storico-religiosa, perché è indicativo della continuità del culto verso la Madonna della Lettera iniziato sin dall'epoca del primitivo tempietto dove si venerava (come scriveva nel 1720 F. Sergio) l'immagine di quella Madonna. Il culto, che era stato voluto se non da un messinese qual era Michele Melizia, che aveva fatto sorgere quel piccolo luogo di preghiera, il primo, il tempietto, forse da chi, collocando sull'altare quella sacra effigie, voleva tributare un omaggio a colui che aveva fondato quel culto. Passando al lato destro, all'inizio si ammira la Crocifissione di Gesù; è un olio su tela che in basso, con ornati caratteri, è così firmato e datato: "Grimaldi Tropien Pino 1710". E' quel famoso Giuseppe Grimaldi, Tropeano, caposcuola dell'arte pittorica di Tropea e zona circostante, di cui purtroppo non si conosce la biografia, perché non si riescono a trovare notizie (visse a cavallo del '600 e del '700), pur avendo lasciato in chiese locali i segni della sua arte pittorica. Poco più avanti c'era un quadro a colori del cuore di Gesù, scomparso. Infine l'altare settecentesco, ha riacquistato la sua originaria immagine dopo un recente restauro. E' in legno con vari elementi sparsi qua e là. E' ben coordinato, complesso, in legno. Si impone per la sua grandiosità ed anche per una sua certa attrazione. L'arte si ammira sempre. Sui due sostegni laterali sono poste le statue di legno dei genitori della Madonna, S. Gioacchino e S. Anna, che, ripulite in fase di restauro, sono collocate nel tempo all'inizio del 1600 (abbigliamento della Madonna con fregi, dorature e ornamenti) e nella nicchia, in alto, c'era un dipinto della Vergine tra i due genitori che era conosciuta con il nome di Madonna della Neve. Attualmente la nicchia è vuota perché il dipinto si trova ancora presso la Sovrintendenza alle Belle Arti di Cosenza da quando, negli anni '80, all'attento esame radiologico del restauratore, in quel quadro era apparsa, sotto quella effigie, la Madonna della Neve, la figura di una Madonna del '200, senza volto. Sotto il piano dell'altare, poi, si scorgono alcune sbiadite tracce di Cristo morto di epoca indefinibile, forse del '700. Ma quale storia racchiude in sé quel tempio? Entriamo un po' nella leggenda tramandata dalla voce popolare che si infervora specialmente di fronte a certi fenomeni straordinari e dell'uomo e della natura. Doveva essere molto spessa la caligine che avvolgeva Tropea in una determinata sera del 1400, se cielo e terra sembravano aver perso i propri connotati. Un violento temporale, infatti, stava scaricando sulla cittadina tutta la sua collera rendendo molto grosso il mare. Quindi molto critica la vita di quel veliero mercantile cui era impossibile scorgere, poiché coperta dalla nebbia, quella sinuosa rupe del Carmine che nell'oltremare avrebbe potuto rappresentare la salvezza. Profondamente abbattuto Michele Melizia, commerciante siciliano e padrone di quella barca, si mise ad invocare con tutto l'animo l'aiuto divino. Improvvisamente su quella rupe che poteva considerarsi la sommità della rupe squarciò le tenebre la luce di una lanterna che forse un contadino portava, probabilmente andava ad accertarsi delle condizioni del bestiame chiuso nella stalla. Essa divenne punto di riferimento tanto che valse al bastimento la possibilità di portarsi sotto costa e mettersi al riparo. Quella luce fu interpretata come un provvidenziale intervento divino da Michele Melizia che, come segno di fede e di gratitudine, decise di fare sorgere, là dove apparse quella fiammella, un tempietto dedicato alla Madonna. Fino agli anni '50 dello scorso XX secolo al punto di congiunzione dei due corpi murari, nel lato sinistro, un po' più in qua dell'arco trionfale, pendeva un pezzo di una grossa fune di canapa che, secondo un'antica tradizione, era servita a Michele Melizia per ormeggiare i bastimenti. Quantunque di ridotte dimensioni questa chiesetta, fatta costruire da Michele Melizia, disponeva, come ci tramanda lo storico Francesco Sergio, di tre altari. In quello grande c'era l'immagine di Santa Maria Maggiore, poi chiamata S. Maria della Lettera; in quello del lato sinistro, poi, era esposta S. Maria delle Grazie con S. Francesco d'Assisi e S. Francesco di Paola; nell'altare a destra c'era il quadro di S. Maria di Michele Melizia successivamente spostato sull'altare maggiore. Stando ad una secolare tradizione, tale immagine, unitamente ad un'altra sistemata nella chiesa di S. Nicola, la Cattolica, quella dei Gesuiti, e a quella della Madonna di Romania, era contenuta in quella cassa che, proveniente dai confini della Romania e destinata ad un principe di Roma, fu sbarcata, all'epoca delle persecuzioni, a Tropea quando il capo barca intuì che soltanto con quell'atto si poteva rimuovere la barca da quella strana immobilità in cui si era posta per raggiungere la costa di Tropea e, quindi, poter riprendere il viaggio. Intanto, poiché la chiesetta senza porte e con una diradata copertura era caduta in uno stato tale di abbandono da diventare rifugio degli asini dei vicini ortolani, un vecchietto, chiamato mastro Pietro (lui diceva di essere sarto, ma c'era chi lo chiamava tappezziere più che sarto; all'occorrenza era anche pasticciere), decise di porre fine a quello sconcio, mettendo un segno che conferisse a quel tempietto una certa sacralità. Ed infatti, con l'olio raccolto periodicamente dai devoti, si premurava ogni giorno di accendere una lampada votiva davanti al quadro della Madonna di Michele Melizia, raccogliendosi in preghiera. Un giorno, forse perché logorato dalla sopportazione delle sue sventure, postosi in un angolo della chiesetta, si mise a contemplare con occhi lacrimosi quella Madonna di cui era tanto devoto lamentandosi cosa mai fosse successo della propria esistenza, fatta di solitudine, di miseria, di altre sofferenze causate anche da una forte forma di balbuzie che gli rendeva molto difficile il parlare. Era un commovente sfogo da cui traspariva la stanchezza di vivere. Ad un tratto gli apparve una giovinetta di grazioso aspetto che amorevolmente gli chiese: "Perché piangi? Piuttosto vai in città e dì alla gente di frequentare questa chiesa dove si vedranno cose mirabili che si racconteranno!". Detto questo, quella visione sparì. Quando, ripresosi dallo sbigottimento, si rese conto dell'importanza di quel meraviglioso, profetico messaggio, senza alcun indugio si incamminò verso il centro abitato dove, senza balbettare più (e questo, per quel buon vecchietto dovette essere un segno miracoloso), espose a quanti riuscì ad incontrare ciò che aveva visto. La notizia si diffuse rapidamente anche fuori Tropea e fu creduta e spiegata come vero messaggio celeste, tanto che sempre più numerosi erano i pellegrini che, spinti dalla fede e dalla curiosità, volevano vedere e venerare l'immagine. "Chi entrava in quella chiesetta come leone", commentava lo storico Sergio, "ne usciva come agnello mansueto". Attenti che si tratta di uno storico quasi contemporaneo. Ma anche quella volta, come accade per fatti del genere, si intese la voce degli increduli: una voce derisoria tra cui c'era anche un sacerdote di nome Arcangelo Andriccio, il quale andava affermando che quello che si diceva non era per niente degno di fede, ma solo pasta per i creduloni o per le donnette. Non passò molto tempo, però, ed anche il sacerdote crollò dall'alto dei suoi scetticismi. Un giorno, infatti, preso dalla curiosità, decise di recarsi nella chiesetta per vedere il quadro di quella Madonna che, come se sprigionasse un flusso misterioso, avvinceva e trasformava chiunque. Chi può sapere cosa sia avvenuto dentro di lui, dopo aver ammirato quella sacra effigie! Certo è che, in seguito, radicalmente diverso fu il suo comportamento, da denigratore divenne ardente sostenitore ed anche curato dello stesso tempietto. Ovviamente si parlò di miracolo. Intanto, sempre più grande era l'affluenza della gente. Si trattava di credenti, di non credenti, soprattutto di storpi, ciechi, sterili, che ungendosi devotamente con l'olio della lampada che il buon vecchietto raccoglieva, giorno per giorno, ricevevano grazie dalla Vergine; e chi non era guarito, non vedeva peggiorare la sua malattia. Innumerevoli erano anche gli ossessi che vi si recavano affinché, con un certo rituale, venissero sottratti al potere del demonio. (Io ho assistito una volta: mons. Milingo, vescovo africano, era a Roma e, un giorno festivo, sono andato ad ascoltare la messa celebrata da lui. Ad un certo punto entrò, accompagnata da alcuni suoi familiari, una donna. Il diavolo era niente al suo confronto!!! Io, uomo, sono rimasto allibito: parolacce, voce alta, imprecazioni... Doveva essere trascinata, si contorceva, cadeva, la rialzavano. Fino a quando non fu portata al cospetto di mons. Milingo che cominciò a parlare nella sua lingua. Quella donna era diventata intrattenibile. Ad un certo punto, alzatosi il tono di voce della donna, si alzò anche quello del vescovo fino a quando, docile, la donna si accasciò su se stessa, priva di sensi. Mons. Milingo aveva scacciato il demonio). Esorcismi del genere si facevano nel '600 e anche nella chiesa della Michelizia. La notizia di tali avvenimenti si diffuse anche in contrade lontane; colpiva la gente che esprimeva la propria devozione con copiose elemosine, donazioni da destinarsi alla costruzione, in quello stesso sito, di un tempio di più vaste proporzioni dal momento che quel tempietto non riusciva a contenere più i pellegrini che venivano da ogni parte della zona. La necessità e l'urgenza si rilevarono in occasione di una ricorrenza liturgica, la festività della Madonna di quella chiesetta, che cadeva il 5 agosto e che il messale romano dedicava a S. Maria della Neve. Quell'anno, uno dei primi della seconda metà del '600, poiché era prevista per quella famosa ricorrenza, una grande affluenza di fedeli che quel piccolo tempietto non avrebbe certamente potuto contenere, si propose di erigere, intorno ad esso, una struttura provvisoria di legno che, abbellita con arazzi, tappeti e panni colorati, comprendeva diversi e improvvisati altari su cui si celebrarono tante messe. Solo quel giorno fu solenne la messa accompagnata da musica. Le previsioni si avverarono! Immensa fu, infatti, la folla che, venuta da lontano, partecipò ai sacrifici. Teneva in quel tempo, e precisamente dal 1646 al 1656, la cattedra vescovile di Tropea, Giovanni Lozano (pronuncia: Losagno), uno dei 6 vescovi spagnoli che, in periodi diversi, dal 1564 al 1726, ressero la Diocesi tropeana. Colpito dall'imponenza di quella partecipazione popolare che rivelò l'inadeguatezza di quella chiesetta per simili, grandi appuntamenti, decise di costruirne una più grande. Narra lo storico Sergio che, radunato più volte il popolo cristiano per sensibilizzarlo al problema, concludeva il suo discorsetto con questa esortazione in spagnolo: "Vamos, hijos mios, a traer piedras por nuestra Senora!" (Andiamo, figli miei, a trarre pietre per la nostra Signora). E così, lo stesso vescovo, tutti i sacerdoti, i monaci, i nobili e la massa dei fedeli processionalmente si recarono al torrente Burmaria che era parallelo al torrente la Grazia, dove, seguendo l'esempio del vescovo, ognuno prese una pietra per portarla, recitando il rosario e cantando inni sacri, là dove grande quantità di pietre che, grazie alle offerte dei fedeli e alla generosità di devoti operai, valse a far sorgere, addossata a quella antica, una nuova grande costruzione, formando così un unico corpo, un unico grande tempio che poteva essere idealmente interpretato come continuità di quella devozione che affondava le sue radici nei secoli passati. Sorse, così, quello che noi oggi vediamo, con la parte posteriore, l'abside, del XV secolo, con la navata longitudinale anteriore del XVII secolo, il '600. Proprio con questo intervento popolare, con questa processione! Purtroppo l'inarrestabile furia del tempo portava con sé sempre più pezzi del culto della Madonna di Michelizia, tanto che dagli inizi del secolo scorso, il '900, fino agli anni 30, l'ufficiatura della chiesa era limitata solo alla celebrazione di alcune messe, nelle ore mattutine del 5 agosto, festa, appunto, della Madonna della Neve. Poi, fino agli anni 50 del 1900, si celebrava soltanto la messa domenicale. Spentasi per sempre la luce dei fedeli, da quell'epoca ne regna la pace, quieta e serena, della campagna. Continua, però, a sfidare il tempo quel solenne, monumentale edificio che racchiude in sé e tramanda ai posteri una storia, una fede, un'arte che sono momenti fondamentali della civiltà della gente.

V

Chiesa dell'Annunziata e Chiesa della Sanità

   Contesto storico. 1535, partiamo da questa data. Ci sono dei fenomeni militari in Europa, ma in particolare in Spagna e Francia, naturalmente per motivi di predominio. L'imperatore del Sacro Romano Impero, che abbracciava vasti territori che comprendevano la Spagna, l'Italia, la Francia ed anche altri domini esistenti in America (c'era, tra l'altro, una guerra tra Francia e Spagna), Carlo V, doveva preoccuparsi non solo di questo, ma anche del fatto che nel bacino del Mediterraneo si verificava quel triste fenomeno della cosiddetta pirateria turca da quando si erano formati i cosiddetti stati barbareschi che avevano fatto di Tunisi e di altre città dell'Africa settentrionale basi per poter raggiungere l'occidente (Chi era Carlo V? Era un imperatore del Sacro Romano Impero che aveva avuto un'educazione profonda e dal punto di vista umanistico e dal punto di vista religioso, tanto che obiettivo fondamentale della sua azione politico-militare fu la concordia, il prestigio, l'unità dei cristiani. Era, quindi, un uomo di lettere; conosceva diverse lingue e con un'educazione umanistica aveva un animo, una mentalità aperta a tutte le cose belle, alla cultura. Era profondamente religioso tant'è vero che ad un certo punto volle concludere i suoi giorni non più da imperatore. Abdicò e si rinchiuse in un convento, in Spagna, quando aveva 56 anni. Morì a 58 anni proprio in quel convento. Ecco a larghe linee la personalità di Carlo V). Famigerato era in quell'epoca un corsaro che era stato nominato dal Sultano comandante della flotta turca. Il suo nome era KAIR-AD-DIN, meglio conosciuto con il nome di Kaireddin; un corsaro spietato ed anche il più temuto. Conosciuto anche dai tropeani perché per ben due volte, nel 1543 e nel 1544, era venuto qui a Tropea per saccheggiare, per violentare, per fare dei prigionieri e, poi, deportarli, come era solito per i corsari, per essere messi al remo, specialmente i più giovani, oppure per essere venduti come schiavi. Non parliamo, poi, delle giovinette, delle belle ragazze che, naturalmente, erano le prede più appetibili, perché all'asta il prezzo saliva e non di poco. Tant'è vero che a Tropea, nelle case, erano stati ricavati dei cunicoli, ben coperti in superficie da una botola, dove venivano nascoste proprio queste ragazze; per impedire che venissero rapite; potete capire voi lo sgomento dei tropeani quando vedevano spuntare, all'altezza di Riace, di S. Domenica, queste navi corsare che erano facilmente individuabili sia per il numero dei remi, sia per la loro conformazione tozza e sia perché usavano per lo più la vela latina, a forma cioè rettangolare. Carlo V sapeva tutte queste cose e un giorno disse basta e, siccome questo Kaireddin aveva fatto di Tunisi la base delle sue scorrerie, organizzata una mirabile spedizione militare, cui parteciparono altri stati italiani, tra cui Venezia, andò a stanarlo, a combatterlo nella sua zona, nella sua base. Carlo V riuscì a conquistare Tunisi, ma non prese Kaireddin. Presa Tunisi, Carlo V liberò, naturalmente, anche dei cristiani in gran numero, che erano stati schiavizzati, rapiti, deportati dallo stesso Kaireddin. (Antonio Muratori diceva che a Tropea aveva trovato rifugio Flavia Gaetani, figlia del governatore di Reggio che pare fosse la moglie, fosse l'amante, certo è che lui veniva a trovarla. Ci sarebbe dovuto essere, quindi, un rapporto di benevolenza, di rispetto per Tropea!!?? No!!! Nel 1543, 1544 mise a sacco Tropea, portando con sé anche dei prigionieri). Quindi Carlo V vinse la battaglia, ma non la guerra. Il suo obiettivo principale era catturare Kaireddin il corsaro.  Con le sue navi, quindi, intraprese la via del ritorno che fu ostacolata da una tempesta che aumentava di forza, facendo aumentare il rischio man mano che si avvicinava alle coste calabre. Possiamo affermare che proprio nelle acque di Tropea decise di fermarsi. Trovava difficoltoso il viaggio, le navi venivano sballottate dai marosi. Avvertendo, quindi, il pericolo, ad un certo punto si diffuse per l'aria un suono di campane. Era credenza allora, e non soltanto a Tropea, ma in tutti i centri marinari, che in caso di temporale, avvistata una barca in pericolo, si suonavano le campane, affinché il loro suono disperdesse il temporale. Infatti nelle grandi campane stava incisa questa frase: "Frangor fulgura, dissipo ventos" (rompo le tempeste, allargo i venti). Questa scritta si legge chiaramente, insieme ad altro scritto, in una campana del duomo di Catania, ma penso anche qui a Tropea (infatti, tempo fa, ho ricevuto una telefonata da un signore di Tortorici che faceva una ricerca sulle campane costruite a Napoli e che mi diceva che qui ci doveva essere una campana dell'Annunziata sulla quale c'era incisa questa frase. Non so se c'e ora. E mi ha anche detto che risulterebbe una campana nell'antico sedile. Infatti la campana dell'antico sedile è stata fatta a Napoli da De Vita Francesco, tropeano, che nel 1815 si era trasferito a Napoli). Carlo V, quindi, intese questo suono di campana che naturalmente interpretò come segno di affetto, di umanità da parte di coloro che avevano messo in movimento la campana. Sbarcò, quindi, a Tropea dove fu ricevuto dai notabili, i nobili, i quali stabilirono di fargli un omaggio, un donativo (soldi) di un certo valore che Carlo V stabilì si dovesse impiegare per costruire un convento ed una chiesa, proprio quella dell'Annunziata, proprio da dove era venuto quel suono di campane e che in realtà venne su da un romitorio, un tempietto che esisteva là sin dal XIII sec. Carlo V volle che si costruisse questo grande convento, annesso alla chiesa, demolendo il romitorio? No. Il romitorio è rimasto: oggi noi possiamo vederne qualche traccia nell'abside, nella parte posteriore del tempio dell'Annunziata. Alla costruzione contribuì anche la generosità di nobili tropeani. La costruzione dell'edificio fu ultimata nel 1539; ci sono quindi, voluti quattro anni perché si costruisse convento e chiesa. E' frutto della volontà di Carlo V il soffitto in legno diviso in cassettoni variamente disegnati e dipinti: opera di mirabile e paziente fattura. Si deve anche alla magnanimità dell'arcidiacono Alfonso Tranfo la donazione del gruppo marmoreo dell'Annunziata alla cui base c'è impresso lo stemma del suo casato. Quindi alla generosità di Carlo V corrispose anche la generosità dei tropeani. Alla famiglia Tomacelli si deve il bel corpo dell'abside, in legno. Come pure generosi furono padre Pasquale della nobile famiglia Martirano de Frate Paolo di Alafito, entrambi del XVI secolo. Il primo accrebbe e abbellì il convento, il secondo adornò la chiesa di altre pitture. (Alafito era uno dei 24 casali di Tropea, esistente sulla rupe di Zaccanopoli prospiciente a Drapia. Nel 1730 era abitato da 196 anime dedite alla costruzione delle macine, all'agricoltura, alla lavorazione del granito e praticavano in maniera profonda la religione cristiana. Avevano un carattere chiuso, diffidente, scontroso nei confronti del forestiero fino a quando non lo conoscevano. Questo perché l'unica via di comunicazione era rappresentata da una disagevole e difficoltosa strettoia che arrivava nel vallone di Drapia. Il terremoto del 1783 aveva cominciato a dare segni distruttivi, ma il nubifragio del 1872, accompagnato da scosse di terremoto, determinò la scomparsa di Alafito, perché le case furono trascinate giù. Si salvarono poche persone e da allora c'è stata come una specie di Diaspora). Il convento, una volta costruito, fu occupato dai padri osservanti di S. Francesco d'Assisi prima, dai riformati poi, che provenivano dall'antico convento di S. Giorgio, poco prima che andasse in rovina e che era sul torrente Burmaria, in prossimità di Drapia. Questi monaci rimasero nel convento dell'Annunziata, salvo un'interruzione verso la fine del '700, fino a quando, soppressi tutti gli ordini religiosi dopo il 1861, anno dell'unità nazionale, l'intero edificio passò nel 1882 al Comune di Tropea il quale dell'orto di quel convento fece il cimitero. Del grande convento rimangono cappelle funerarie (cappella di S. Giuseppe, Sala mortuaria). Oggi si ammira soltanto la chiesa, un autentico edificio monumentale che nel  corso del tempo ha subito vari rifacimenti fino all'800. L'ultimo restauro incominciò negli anni 50 dalla sovrintendenza ai monumenti ed ancora aspetta di essere ultimato. Il tempio si presenta con un NARTECE in pietra scolpita che è stato aggiunto successivamente al tempio (il nartèce è quell'antro che anticipa l'ingresso alla chiesa; posto su pilastro e aveva una funzione nei primi secoli del cristianesimo perché, mentre il battezzato, il puro, poteva entrare in chiesa, non poteva entrare chi ancora non era stato battezzato, e quindi stava nel nartèce - i catecumeni cioè -) per poter ricavare sopra un altro coro per i frati (uno era nell'abside). Il portale è rinascimentale e immette nell'interno della chiesa, costituito da una sola grande navata longitudinale, rettangolare, con tre archi murati all'esterno e all'interno, perché prima c'era una piccola navata che doveva servire per far pregare nell'altro coro. In alto, sempre sopra al nartèce, troviamo tre archi che collegano la chiesa al vano del nartèce. In fondo si ammira l'altare maggiore: i marmi scuri del '500 con segni del '600 e del '700; su di esso si venera il gruppo marmoreo dell'Annunciazione, opera di Giovambattista Mazzolo, scultore toscano del XVI secolo. Sulla sommità, poi, di questo gruppo marmoreo si nota l'Eterno Padre, pure opera dello scultore Mazzolo. Dietro l'altare vi è affrescata la flagellazione di Cristo del 1644 firmata da un certo Didacus napolitanus, forse Diego di Napoli. Sotto la crociera gotica, poi, sempre nell'abside, c'è il coro bellissimo in legno con intarsi del '500. A destra c'è un antico crocifisso purtroppo di epoca ed autore ignoti, forse rimaneggiato nel corso del tempo. Anche se in non buone condizioni, merita di essere notato il soffitto in legno a cassettoni, per due motivi: storico, perché ci ricorda la volontà di Carlo V di avere proprio quel tipo di soffitto, e artistico perché tra il rinascimento ed il barocco. Ci sono due tombe, quella a sinistra, vicina all'altare, è del capitano Carlo De Walls che sembra comandasse la spedizione di Carlo VI per conquistare Milazzo. A causa delle parole storpiate e puntate non sono riuscito a fare una intera traduzione dell'epigrafe. Comunque si capisce che quel capitano, ben voluto dall'imperatore Carlo VI, presso il quale era stato al servizio da giovinetto (efebus), era stato poi nominato capitano. Aveva, però, 24 anni quando morì "colpito da una crudele forza del male, che uccise quel superstite dalla battaglia a 24 anni a Tropea, in Calabria, il giorno 9 aprile del 1719". E chi fece quella lapide, sotto, come volesse raccomandarlo ai visitatori, scrive "Ora pro eo" (Prega per lui). Affidava quella salma alla pietà dei visitatori. L'altra lapide importante per motivi artistici è all'inizio, a sinistra, ed è il mausoleo barocco di Alfonso Toraldo Calimera morto a 46 anni ed ivi sepolto nel 1719, come quel ragazzo.

Chiesa della Sanità

   Voluti dai tropeani, erano venuti nel 1590 a Tropea i padri cappuccini che furono alloggiati in un piccolo fabbricato in contrada Vicci (Case popolari), la cui aria era malsana per cui i monaci decisero ad un certo punto di lasciare non soltanto il convento, ma anche Tropea con grande disappunto dei tropeani che li avevano voluti a predicare nella nostra cattedrale nella quaresima del 1598. Fu il cappuccino Padre Bonaventura da Catanzaro di passato principesco, il quale, con la sua eloquenza, con la sua condotta intemerata seppe convincere i Tropeani a fare erigere un convento in un posto diverso, più decente, possibilmente nella natura isolata. Il vescovo Tommaso Calvo, messinese, che resse la chiesa di Tropea dal 1593 al 1613 scelse il luogo dove doveva sorgere il convento, cioè quello attuale della Sanità. La nobiltà tropeana si mobilitò per tutto l'occorrente. Giuseppe Gallerano, generoso benefattore, offrì il suolo, la baronessa Caterina Tomacelli, dietro beneficenze, diede la pietra per la costruzione del convento e della chiesa; Iacobello Caponara le travi per il tetto, Leonardo Gifforio 100 ducati, infine Antonello Galluppi sonò ben 1000 ducati riservandosi di corrispondere ancora quanto fosse necessario per la realizzazione dell'edificio. Grazie a questi consistenti donativi, la costruzione fu portata a termine in breve tempo e, come segno di riconoscenza, dai padri fu fatto mettere sulla facciata della chiesa l'arma e la famiglia (lo stemma della famiglia) Galluppi. In verità anche le altre famiglie diedero il loro contributo per il completamento della chiesa anche all'interno. Infatti Alessandro Tranfo si dispose a pagare l'altare maggiore e la pala. L'altare maggiore, opera notevole in legno scolpito, con un solenne tabernacolo, concepito e realizzato con minuziosa attenzione, di stile prettamente cappuccino, fu eretto, poi, dai cappuccini nel primo ventennio del '700 ed è opera del pittore D'Amato di Napoli del XVI secolo. Su questo altare c'è la pala della Madonna della Sanità. Tale quadro della Sanità ci presenta S. Francesco che sembra raccomandare alla misericordia della Madonna, che ha in braccio il Bambino Gesù, le miserie umane rappresentate da quelle anime penanti che sono in fondo al quadro, forse ammalati. Altre tele, ma di scarso valore artistico, completano l'arredamento interno della chiesa. Nel corso del tempo tanti furono i danni subiti dall'intera fabbrica, per cui, da parte degli attuali frati minori, si procedette a lavori di vario genere unitamente a quelli fatti in epoca recente che hanno intaccato un po' l'originaria fisionomia. Tuttavia la chiesa suscita ancora oggi interesse per la sua conformazione ad ampia navata centrale con una navatella laterale intersecata da tre cappellette, tre arcate su pilastri com'era lo schema monastico in uso in Calabria dai tempi antichi fino all'800.

VI

Chiesa del Rosario e Chiesa del Gesù

   Avremo modo, ora, di conoscere due storie diverse: una che riguarda la chiesa del Gesù e l'altra la chiesa del Rosario. Con la storia della chiesa del Rosario conosceremo la fierezza, l'orgoglio della gente tropeana, mentre con la storia della chiesa del Gesù conosceremo un certo tratto di storia che va dal VII/VIII secolo d. C. fino ai nostri giorni. Faremo un percorso nel tempo punteggiato da fatti, da personaggi, da dominazioni politiche. Parleremo, infatti, delle successioni delle varie dominazioni in Calabria, e quindi a Tropea; e, dato che siamo nel VII/VIII secolo, avremo modo di incontrare i bizantini, i normanni ecc...

Chiesa del Rosario

   Avremo modo di conoscere un momento esaltante, in un certo senso, di quello che era il popolo di Tropea, specialmente posto di fronte a certe ingiustizie. Tropea fu sempre privilegiata dai Normanni, dagli Angioini, dagli Aragonesi soprattutto, che governarono dal 1442 al 1504. Vari privilegi furono concessi fra cui la corona da inserire al di sopra dello stemma di Tropea. Non tutti i centri, non tutte le cittadine, non tutte le città avevano la corona che sormontava il loro stemma. Ci dovevano essere particolari condizioni perché si meritasse questa corona! E Tropea, evidentemente, se l'è meritata, per cui, per privilegio, aveva la corona al di sopra dello stemma. Non solo! A parte la concessione di svolgere fiere e mercati, Tropea fu considerata città demaniale in perpetuo, perché dipendeva direttamente dal sovrano rappresentato naturalmente dal viceré. Essendo città demaniale, non poteva essere venduta in una libera gara al miglior offerente. Accadeva, però, che qualche viceré, o perché voleva impinguare le casse stremate dello Stato o per altri impellenti bisogni, vendeva anche le città demaniali. Questo è successo a Tropea nel 1612, quando c'era il dominio spagnolo, il Re di Spagna era Filippo III e viceré era Pietro Fernandez de Castro, conte di Lemos. Forse aveva bisogno di soldi, perché le casse erano state svuotate con le lotte dei presidi toscani, o perché voleva fare una nuova università a Napoli. Certo è che la pose in vendita e ad acquistarla fu il principe Vincenzo Ruffo di Sicilia, in Calabria. Naturalmente, immaginate lo sgomento dei tropeani, soprattutto per essere stati venduti, pur avendo quel famoso privilegio. Ci furono aperte rimostranze nelle vie anche attivando i cosiddetti canali diplomatici. Naturalmente era stato pagato un prezzo dal Ruffo al viceré, cosicché si videro delle scene esaltanti da un lato e commoventi dall'altro. Per poter raggranellare la somma che valesse come riscatto della propria indipendenza, della propria libertà, la gente, radunatisi "nta chiazza", le donne, con la fierezza delle donne spartane, con la fierezza delle donne romane, ma anche gli uomini, facevano a gara, senza essere forzati, a sfilarsi la fede nuziale dal dito e consegnarla ad una autorità rappresentante di Tropea proprio con l'obiettivo di pagare il prezzo del riscatto della propria libertà, della propria indipendenza. Naturalmente non si dimenticava l'affetto che Filippo III di Spagna aveva nei confronti di Tropea, per cui si mobilitarono alcuni cittadini illustri, cioè Lauro, Ferdinando d'Angiò e Tommaso Pelliccia (ricordati nella toponomastica tropeana con vie intitolate con i loro nomi) i quali, recatisi a Madrid, espressero il disappunto, lo sgomento e, perché no, l'ira dei tropeani. Filippo III non tentennò un attimo, con un suo rescritto annullò la vendita fatta dal suo viceré e Tropea riacquistò la sua libertà. Si tramanda che, mentre era in corso l'ambasceria di questi tre personaggi a Madrid, alcuni uomini videro in alto uno stormo di gru che migravano verso S. Domenica: erano disposte in fila indiana, volteggiando in maniera tale che a quell'osservatore sembrava formassero delle lettere particolari che, messe insieme, formavano la parola latina LIBERTAS, cioè libertà. Questo fatto fu interpretato nel migliore dei modi, che a Tropea, cioè, aveva vinto la causa, aveva riacquistato la libertà veramente. La voce si diffuse tra il popolo e si decise che là dove era stata vista questa fila di gru, al di sotto in corrispondenza, doveva sorgere una chiesa che ricordasse proprio la libertà. La strada, infatti, ebbe questo nome ed una statua della Madonna, detta appunto della Libertà, fu lì fino al 1931, quando, poi, fu posta nella navata sinistra della cattedrale. La chiesa sorse subito: la sua costruzione fu ultimata nel 1619 e dedicata alla Madonna della Libertà. Fino a poco tempo fa la gente comune la chiamava "a cresia d'i scavuzi", perché era stata officiata subito dagli Agostiniani Scalzi. Abbandonata, poi, da questi, fu officiata dai Carmelitani. Oggi la chiesa, che non contiene opere di particolare pregio tranne qualche sbiadito affresco che si trova nella sagrestia che ricordava la congrega del Purgatorio. In questi affreschi si vedono degli uomini con mantello bianco, incappucciati, che sono proprio i fratelli della congrega del Purgatorio. La chiesa si presenta con l'antico schema ad aula longitudinale e con cappelle laterali. Il teologo Francesco Pugliese diceva che quel tipo di chiesa, il tipo planimetrico di quella chiesa, è uno dei rari esempi esistenti in Calabria. Dal punto di vista planimetrico, naturalmente, mentre dal punto di vista artistico c'è poco o niente. Dal punto di vista storico c'è quel tanto che ci serve per ricordare la fierezza dei tropeani.

Chiesa del Gesù

   Nell'attuale Largo Padre Vito Di Netta, tra il VII e l'VIII secolo sorse una chiesa di tipo bizantino. I bizantini si insediarono in Calabria, e quindi a Tropea, dal 535 al 1060 e portarono il loro rito geco voluto specialmente dall'imperatore Leone Isaurico, il quale, volendo ellenizzare, grecizzare completamente i territori di loro dominio, aveva sottratto all'autorità del papa romano quelle chiese che esistevano nei territori occupati dai bizantini, per unirle al Patriarcato di Costantinopoli. E' chiaro pensare che, ipso facto, il rito latino venne sostituito dal rito greco e esistette fino a quando i normanni restituirono al papa romano le chiese usurpate dai bizantini. Sorse, quindi, tra il VII e l'VIII secolo questa chiesa, forse a tre navate e con l'altare ad oriente, in direzione di Parghelia. Si chiamava Chiesa di S. Nicola la Cattolica e, naturalmente, c'era il rito greco. Ad un certo punto, una famiglia benefattrice, la famiglia Tavuli, non avendo eredi, fece una donazione affinché venissero i Gesuiti e costituissero un collegio. I gesuiti in effetti vennero nel 1594 per fondare il loro collegio che fu inaugurato nel 1606. Il vescovo di allora, Tommaso Calvo, e il capitolo della cattedrale fecero sì che, ad officiare la chiesa, fossero i gesuiti, i quali si insediarono, però, quando la chiesa era abbastanza vecchia. La sua staticità, quindi, la sua struttura muraria era vacillante per cui decisero di demolirla e costruirne una nuova, l'attuale chiesa, a croce greca, con l'altare maggiore non più a destra. Venne su un tempio con una cupola in formazione, non sviluppata, però, in quanto lo sviluppo strutturale era stato rimandato a tempi migliori, più opportuni, che non vennero mai. Venne, così, su un tempio a croce greca le cui forme rispondono in pieno al gusto barocco dell'epoca (siamo nel '600) e la facciata, l'attuale facciata, è originale, anche se i colori sono un po' diversi e l'altezza è più ridotta rispetto alla facciata originaria dal momento che subì danni con il terremoto del 1905. Essa è in piena sintonia con l'interno del sacro edificio. Nella facciata si notano quattro lesene, colonne sbalzate un po' dal muro, che sorreggono il timpano (il triangolo in alto, nel cui centro si apre un finestrone sormontato dall'emblema dei gesuiti, IHS) e, tra le lesene, spiccano quattro nicchie che si concludono in alto a forma di conchiglia di vero gusto barocco e che ospitano le statue in gesso bianco di quattro santi e dottori della chiesa, maestri di dottrine ecclesiastiche quali erano S. Agostino, S. Gregorio Magno, S. Ambrogio e S. Girolamo, Al di sopra del portale in pietra viva si nota una lapide commemorativa e lo stemma dei padri redentoristi, come se si volessero ricordare i passaggi dai gesuiti ai redentoristi, passaggi di due ordini religiosi. I gesuiti officiarono la chiesa fino al novembre del 1767, quando, costretti dal ministro Tanucci, se ne dovettero andare, cacciati via da Tropea, perché Tanucci, ministro del regno di Napoli, voleva che il regno non dovesse subire ingerenze né da parte dei nobili né da parte del Clero. Soprattutto non voleva che subisse ingerenze da parte dei gesuiti. Aveva una specie di astio nei confronti dei gesuiti, per cui, al momento opportuno, fece sì che i gesuiti si ritirassero in ambienti più ristretti. Il convento, perciò, rimase chiuso fino al 1789, ben 22 anni dalla partenza dei gesuiti, fino a quando, cioè, Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie, scelse anche Tropea fra le quattro case che dovevano sorgere in Calabria come sede per i padri redentoristi che giunsero infatti nel 1790. I primi redentoristi arrivati a Tropea, però, non abitarono nel collegio dei Gesuiti, ma nell'ex convento dei frati minori all'Annunziata e poi, precisamente il 27 maggio del 1802, passarono al collegio. E' un'oasi di pace donde si ammirano squarci bellissimi, suggestivi. Si trovò a venire a Tropea, il 14 aprile del 1883, Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie. Innamorato di questi squarci tropeani, quando poteva, in segreto modo, lasciava Napoli e per via mare veniva a Tropea. Sbarcato, saliva sul convento dei redentoristi, attraverso una scala scavata nella roccia e lì dimorava, alloggiava due, tre giorni, in solitudine, in contemplazione, in riflessione. Questo mi meraviglia perché Ferdinando II era poco, o per niente, liberale, era di un assolutismo obbrobrioso, per cui, conoscendo questi fatti veri, storici, mi viene da chiedere come conciliava quell'ansia, quell'aspirazione, quel momento di spiritualità con quello che poi faceva come uomo politico. I redentoristi stettero lì fino al 1867, ritornarono nel 1926 e sono qui da quell'epoca. Parliamo adesso dell'interno della chiesa. Arioso e spazioso è a forma di croce greca. La sua struttura architettonica rende quella chiesa la più interessante di Tropea, dopo la cattedrale, ed è talmente importante che è sotto il vincolo della sovrintendenza ai monumenti nazionali. Contiene un pregevole patrimonio artistico che lo completa, l'adorna. Un particolare contributo l'ha dato con la sua arte pittorica il pittore tropeano Giuseppe Grimaldi, che visse a cavallo del '600 e del '700. Purtroppo non c'è di lui una vera storia continuata. Sappiamo solo che visse in questo periodo, che fu un caposcuola, che era un po' bizzarro. La sua pregevole arte è espressa su quattro pennacchi (quei triangoli che si trovano sotto molte cupole e servono a sostegno di essa) dove sono rappresentate le quattro virtù cardinali: giustizia, fortezza, temperanza, prudenza; e soprattutto nella grandiosa tela che si trova al di sopra della porta d'ingresso dov'è rappresentato il presepe. Malandata oggi e per il cui restauro si cercano ancora finanziamenti. In un suggestivo paesaggio arcadico, l'autore colloca tra luci e colori scene e personaggi con delle linee, dei colori che danno ordine e calore a tutto il complesso dove oltre alla sua arte, oltre alla sua fantasia, oltre alla sua anima lui ha lasciato il suo autoritratto. Questo quadro è così firmato: Ioseph Grimaldi Trop (tropiens) ping (pingit); poi c'è la data in numeri romani 1731. Alla Michelizia noi abbiamo visto quel quadro del 1701, in questa chiesa dei Gesuiti il Presepe è datato 1731. Quanti ne ha dipinti dopo questa data non si sa. Guardiamo ora l'altare maggiore. Esso si impone con la sua monumentalità. E' del principio dell'800, ma fatto in forme tardive barocche dove si osserva la tela che raffigura la circoncisione di Gesù. La tela viene attribuita, ma non si è sicuri, a Paolo De Matteis, pittore vissuto tra il 1662 e il 1728. A sinistra, entrando si nota l'altare di S. Alfonso, in marmo settecentesco. Fu comprato a Messina da Padre Vito Di Netta. Si dice che fosse di una chiesa mandata in rovina da un terremoto. A sinistra vi è la tela di S. Clemente Maria Hoffenbauer, redentorista austriaco, che diffuse l'ordine dei redentoristi fuori d'Italia; alla destra della cappella vi è la figura di S. Francesco di Paola di autore ignoto entrambe le tele. Di fronte alla cappella di S. Alfonso c'è quella di S. Gerardo, il cui altare in stucchi per simmetria e un'imitazione di quello di S. Alfonso. Vi sono custodite le spoglie di Padre Vito Di Netta che dimorò a Tropea dal 1811 al 1848, 37 anni, e fu tanto amato. Passando avanti, sempre a sinistra, troveremo l'altare di S. Ignazio di Loyola (il fondatore dell'ordine di Gesù; si vedono, quindi, sempre, le tracce dei gesuiti); il santo è ritratto mentre ha la visione di Gesù sulla strada che lo porta a Roma, quando Gesù gli dice: "A Roma ti sarò propizio", nel 1538. Sopra questo altare ci sono le statuette in gesso di S. Francesco Borgia, di S. Francesco di Gironimo, al centro in alto c'è la statuetta dell'Immacolata e a destra il busto di S. Gennaro, patrono di Napoli; sotto l'altare c'è il simulacro di S. Filomena. Sempre in quest'altare, in alto a destra, si ammira la tela di S. Ignazio mentre scrive gli esercizi spirituali (la tela è di fronte a chi si siede per ascoltare la santa messa). A sinistra, ancora lo stesso S. Ignazio ferito ad una gamba. Queste ultime due tele sono del pittore Giuseppe Pascaletti di Fiumefreddo Bruzio, 1699-1757. Di fronte c'è la cappella, l'altare di S. Francesco Saverio, uno dei primi compagni di S. Ignazio. Le due statuette in gesso poste in alto rappresentano S. Stanislao Gostika e S. Luigi Gonzaga. Al centro, sempre in gesso, è rappresentato Dio Padre. In alto a sinistra c'è la tela di S. Francesco Saverio mentre opera il miracolo del Crocefisso che, cadutogli in mare, gli viene riportato da un granchio. Sotto questa tela c'è la statua in gesso di S. Domenica. Sempre in alto, ma a destra, c'è la tela che raffigura S. Francesco Saverio sul punto di morire. Queste tele sono pure di Pascaletti. Sotto quest'altare è deposta la settecentesca statua lignea di Cristo Morto. Questa è la dotazione artistica di quella chiesa importante per il suo valore artistico ed anche storico.

VII

Chiesa del Carmine

   A questo punto mi propongo di esporre qualcosa sulla chiesa del Carmine, sul santuario di S. Francesco di Paola e poi, tornando nel centro della città, della Cattedrale. Incominciamo il nostro giro turistico col Carmine e caliamoci nella realtà del 1569, quando lì c'era una piccola chiesa al posto della quale, per volontà di famiglie nobili (e precisamente di Alessandro D'Aquino) fu edificata una chiesa, quella attuale, cosiddetta Maria del Carmine. Veniva officiata da carmelitani i quali alloggiavano in un convento annesso alla chiesa, un convento molto modesto tant'è vero che, ad un certo punto, i padri carmelitani lo abbandonarono trasferendosi altrove. Ci furono dei rifacimenti per quanto riguarda la chiesa e il convento nella speranza che ritornassero, però il risultato fu negativo. Oggi del convento non esiste niente perché attiguo alla chiesa noi troviamo un caseggiato. Di interesse è la sua facciata settecentesca. All'interno ci dovrebbe essere un quadro bizantino del VII/VIII secolo. Forse in sagrestia. E' un dipinto della Sacra Famiglia del XVI secolo di autore ignoto.

Chiesa di S. Francesco di Paola

   Continuiamo la nostra passeggiata e rechiamoci al santuario di S. Francesco di Paola con l'annesso convento che oggi però è casa privata abitata. Quella chiesa trae le sue origini da una storia singolare che ha come protagonista S. Francesco di Paola comunemente, affettuosamente chiamato dai calabresi padre Franciscu, di grande umiltà, di grande amore, potremmo dire modello esemplare di modestia, semplicità e umiltà. Tant'è vero che lui non ha mai preso messa perché si considerava non degno di celebrare la sacra eucarestia; non solo, ma, quando è passato da Tropea, si è fermato in periferia perché sapeva di essere popolare e non voleva entrare in quanto, essendo Tropea sede del vescovo, a lui sarebbe dispiaciuto ricevere onori, acclamazioni da parte della gente. Continuò, perciò, il suo viaggio salendo per la strada di Fitili, arrivando a Zaccanopoli. Vediamo, appunto, quello che io ho scritto nel 1985 su questo santo conosciuto ormai dovunque per la fama delle sue virtù ed anche dei suoi miracoli. Francesco D'Alessio, questo il suo nome, venerato col nome di Paola perché era nato là il 27 marzo del 1416, era chiamato dappertutto perché la gente lo voleva conoscere, sentire, vedere, sentire la sua parola d'amore ed umiltà; non aveva cultura, ma questo non gli impediva di suggestionare la gente, specialmente quella gente semplice o quella colpita da vicissitudini, traversie della vita, che voleva sentire una parola di conforto. Con questa prospettiva un giorno fu invitato a Milazzo; intrapreso a piedi questo viaggio in compagnia dei suoi discepoli, Paolo Rendano e Giovanni da S. Lucido, nel marzo 1467, pervenne a Tropea che non ebbe la fortuna di poterlo accogliere perché sembrava inopportuno entrare nella sede di un vescovo, per cui si fermò lì in periferia. Dopo essersi riposato un po' prima di risalire il corso del torrente Burmaria per portarsi a Zaccanopoli (dove, fino a qualche tempo fa, si conservava la ciotola dove lui aveva consumato la minestra) dove avrebbe pernottato, volle benedire Tropea, indicando il posto dove, secondo lui, sarebbe sorto un convento della sua religione. Infatti la profezia si avverò nel 1543, in maniera un po' singolare. Cittadino di Tropea era un certo Giovanni Attisi che aveva fatto sempre il militare sulle galere (un tipo di nave) quando fu costretto a sbarcare. Abituato, però, alla vita movimentata, mal si adattava all'ozio diciamo del pensionato, per cui cercava sempre il rischio, l'avventura; un giorno aveva saputo che nella locale rada era approdata una nave che però presto avrebbe levato gli ormeggi per ripartire. Non riuscendo a resistere al fascino del mare, pensò di presentarsi dal capitano della barca per offrire i suoi servigi. Per accorciare la distanza, ritenne più conveniente raggiungere la spiaggia attraverso un viottolo ripido, tortuoso, scosceso, ma la fretta non gli fu amica tanto che precipitò ai piedi della rupe dove rimase tramortito. Quando si riebbe, si trovò adagiato sul lido orientale della città. Disse che era stato aiutato da un vecchio religioso, nel quale aveva riconosciuto la figura di S. Francesco, il quale l'aveva sostenuto e portato in salvo. Naturalmente questo fatto provocò nel suo intimo una profonda crisi spirituale che lo spinse a cercare la solitudine, come facevano gli eremiti, e se ne andò sui monti d'Arena, dove si fece apprezzare da una contessa della zona. Dopo alcuni anni di meditazioni, di solitudine, ritornò a Tropea dove, memore di ciò che era accaduto, memore di S. Francesco, volle erigere con l'aiuto finanziario della medesima contessa una chiesa, l'attuale santuario cui diede il titolo di S. Maria dell'Aiuto, anche se sull'altare principale fu sempre venerato S. Francesco di Paola. L'annesso romitorio ebbe come ospiti lo stesso Attisi, altri due religiosi, tutti dell'ordine dei minimi. La chiesa subì rifacimenti nel corso del tempo, specialmente nel 1745. Anche il convento nel corso del tempo era stato già ingrandito, ma, dopo il terremoto del 1783, quando i padri erano tornati provvisoriamente, lo trovarono in condizioni di estrema rovina per cui fu abbandonato per sempre. Il santuario ad unica navata longitudinale continua ad essere meta di fedeli. L'interno, che è preceduto da un elaborato portale in pietra granitica, contiene tante lapidi tombali di nobili tropeani (i nobili preferivano avere sepoltura in chiese di una certa importanza) ed in alto tra le finestre diverse tele settecentesche naturalmente della scuola grimaldiana e, mi pare, raccontano la vita di frate Francesco.

La Cattedrale

Il Porticato Svevo

   In periferia, quindi, abbiamo trovato questi due edifici. Adesso passiamo al centro storico e precisamente in Largo Duomo. Quando nel 1927 si volle trasferire o, meglio, ridare il volto, la struttura originaria alla nostra cattedrale, nel momento in cui si denudavano i muti interni, venne fuori quello che era stato un interessante porticato con un loggione sopra. Porticato che univa la cattedrale. Sono alcuni archi a sesto acuto ed è stato costruito in un periodo successivo alla costruzione della cattedrale, costruita nel XII secolo. Il porticato è, invece, del XIII secolo ed è detto svevo perché noi, a Tropea, dopo la dominazione normanna abbiamo avuto la dominazione sveva dal 1194 al 1266. E' stata una dominazione pacifica. Unica erede dei normanni, del casato di Ruggero il normanno, era stata Costanza d'Altavilla, la quale aveva sposato Enrico VI e dalla quale derivò il casato svevo. La dominazione sveva si è concretata soprattutto con il grande imperatore Federico II, di grande cultura, di grande apertura mentale; figuratevi che la sua reggia a Palermo era come un asilo per letterati, filosofi ecc... E' stato il suo proprio un impero illuminato, animato com'era dalla cultura e da una grande saggezza, ...saggezza politica intendo. Riguardo al porticato, Edoardo Galli, che all'epoca della ristrutturazione era sovrintendente alle Belle Arti di Reggio Calabria e che dirigeva i lavori del restauro, ebbe a dire: "Il porticato svevo della cattedrale di Tropea è un modello unico di bellezza e di armonia". E si ammira proprio perché ha un senso, una plasticità armoniosa e nelle linee e nella sua struttura. Qui troviamo cinque statue marmoree che sono state trasportate intorno agli anni 60/70 del secolo scorso, del '900 cioè. Abbiamo S. Chiara, di fattura secentesca, che si trovava nell'omonima chiesa oggi dissacrata, dove c'era il Municipio; poi abbiamo gli apostoli Pietro e Paolo, che sono del tardo '500 veneziano; S. Francesco di Assisi del '600 e una bella Madonna delle Grazie di età barocca. Queste due ultime statue provenivano proprio dalla chiesa di S. Chiara. Le statue più grandi, di S. Pietro e S. Paolo, secondo la tradizione venivano da Venezia ed avevano come destinazione Roma, perché commissionate, unitamente ad altre statue, da una chiesa di Roma. Si racconta un episodio simpatico, curioso: era un giorno del 1582, un bastimento mercantile proveniente da Venezia, viaggiando lungo l'adriatico, si è lasciato, poi, alle spalle lo stretto di Messina, ma si mise in un passaggio pericoloso, quando fu colto da un temporale che costrinse il comandante a portare sotto costa il veliero onde evitare che la portata delle onde al largo potessero determinare il naufragio, tenendo conto che nella stiva c'era un peso non indifferente provocato da 12 statue con destinazione Roma; l'equipaggio era composto da 6 uomini. Le 12 pesanti sculture in marmo raffiguravano gli apostoli di Cristo ed erano state commissionate appunto da una chiesa romana. Arrivati all'altezza di Tropea, poiché era pericoloso andare oltre, il comandante decise di pilotare il proprio legno nella nostra rada, nel porto naturale. Tropea ebbe sempre fama di cittadina signorile, non solo per le sue famiglie altolocate, ma per la squisitezza di maniere di tutta la gente. Una delle tanti gentili consuetudini di quella gente era quella di visitare, fare, cioè, una visita di cortesia con eventuale fornitura di vettovagliamento, a quelle navi che si ancoravano nel nostro porto. Appena a conoscenza dell'arrivo fortunoso del veliero, il barone e signore Galluppi, antenato del filosofo Pasquale, unitamente ad un membro della famiglia Tranfo ed ad un altro della famiglia Carbonaro, seguendo questa simpatica tradizione, si recò al porto per salutare il comandante e l'equipaggio e per dichiarare la loro completa disponibilità. Il capitano, naturalmente, accolse benevolmente quell'ambasceria tropeana e parlò con calma del carico marmoreo esistente nella stiva; raccontava la drammatica avventura in mare ed il motivo per cui era approdato a Tropea. Nel momento in cui il comandante faceva questo racconto, e cioè che il suo veliero aveva come carico 12 statue di apostoli e dell'arrivo nella rada di Tropea, nel sentire tutte queste cose subito i tropeani si ricordano della venuta del quadro della Madonna di Romania e della leggenda secondo cui quella nave arrivata nelle nostre acque non si mosse fino a quando il quadro non fu sbarcato. Sbarcare quel quadro era segnale che la nostra Madonna aveva scelto Tropea come sua sede. Presi da questo ricordo, misero insieme l'uno e l'altro fatto e fecero capire, raccontandoli al capitano, che quello era un disegno della divina Provvidenza, per cui le 12 statue dovevano essere sbarcate a Tropea. Immaginatevi il comandante! In lui c'era come un contrasto tra fede e diritto: fede, perché vedeva e credeva nei fatti soprannaturali (quello per lui iniziava ad essere un fatto soprannaturale); diritto, perché era stato incaricato di trasportare queste 12 statue a Roma. Questo contrasto doveva agitare alquanto il povero comandante, soprattutto quando l'ambasceria tropeana fece espressa richiesta dello sbarco. Si arrivò ad un compromesso. Si voleva salvaguardare da parte del comandante e la fede e il diritto; e allora disse: "Va bene! Ma tutte le 12 statue non ve le posso dare! Ve ne do soltanto due: S. Pietro e S. Paolo". Aveva risolto così il problema che lo agitava. L'ambasceria tropeana era contenta di aver risolto, seppur in parte, la questione dello sbarco. Da quel giorno le due statue di S. Pietro e di S. Paolo sono diventate tropeane e sono state allocate nella cattedrale. Quando nel 1927 sono iniziati i lavori di restauro, queste due statue erano ai lati del presbiterio. E quando il bastimento, che doveva essere carico di 12 statue, arrivò con 2 in meno, cosa successe al comandante? Non si seppe mai nulla; le cronache hanno sempre taciuto, forse nell'interesse dell'uno e dell'altro.

Il Crocefisso cosiddetto Nero

   Parliamo adesso del crocefisso che io chiamo ex nero, perché ci fu un periodo in cui era proprio nero. Ha cambiato, poi, colore, però! Questo crocefisso, a parte la singolare storia, è veramente un capolavoro artistico perché, a parte le linee, le dimensioni, c'è qualcosa di suggestivo in quella effigie. Noi troviamo, e lo si vede chiaramente (ecco l'arte!) nel volto, la sofferenza dell'uomo e, nel contempo, la rassegnazione, troviamo cioè l'uomo e Dio, l'umano e il divino in una perfetta simbiosi, una perfetta unione, una comunione, direi, di arte e di fede, perché, secondo me, quell'artista ignoto ha espresso la sua idea, ha fatto arte guidato dalla fede, guidato dal sentimento. Quindi è idea, ma nel contempo è sentimento, quando noi all'idea, a quella realtà che stiamo riproducendo, trasmettiamo qualcosa di spirituale, di sovrumano, quelle che sono, cioè, le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri sentimenti, il nostro mondo spirituale, tutta la nostra interiorità...; dal punto di vista scultoreo è più affascinante, ecco perché ho voluto parlarne a parte, anche perché ha una sua storia. Si tramanda da una generazione all'altra che un giorno, imprecisato purtroppo (comunque non prima del XV secolo, quindi dal '400 in poi) un grosso bastimento, forse proveniente da un porto spagnolo o francese, come al solito sorpreso da un terribile temporale, per sottrarsi alla furia del vento e alle forti onde, si portò al largo, in mare, verso un tratto della spiaggia di Capo Vaticano e precisamente nei pressi di una proprietà terriera della famiglia Bongiovanni di Tropea (A questo punto si capisce che qualcosa di fantastico c'è, ma nella sostanza noi troviamo la storia, una base di storia, in cui la fantasia costruisce qualcosa che è sempre affascinante). Era una delle tante navi, non frequenti nel nostro mare, che univano il sud, il centro ed il nord d'Italia con porti ed empori stranieri, per intensi scambi commerciali, specialmente per quanto riguarda il vino. Tropea era un punto nevralgico nel '400 e anche nel '500, soprattutto perché squisiti, rinomati erano i vini tropeani. Avvenne, quindi, il naufragio, perché, incagliatosi nelle secche, quel veliero si spaccò tra gli scogli. Galleggiava tra sartie e rottami, sospinto dalla risacca del mare, un Gesù crocifisso, ligneo, di dimensioni quasi naturali, che era una parte del carico del veliero. Naturalmente la fantasia popolare si accese: fatti naturali venivano letti, interpretati come eventi soprannaturali e anche quello del crocefisso fu considerato un fatto soprannaturale. Recuperato il sacro naufrago da devoti volenterosi e trasportato nella proprietà dei Bongiovanni, per disposizione dei medesimi fu trasportato nella cattedrale di Tropea, ritenuta la sede più degna per accogliere quello che a prima vista sembrava un crocifisso non comune. Subito si palesò per un simulacro pregevolissimo di cui si coglieva all'istante la finezza del lavoro: quanto soprattutto ci si soffermava sui vari punti, quanto soprattutto si analizzavano le varie parti del crocefisso. Purtroppo non sappiamo cosa avvenne immediatamente di questo crocefisso. Sappiamo solo che fu traslocato nella cattedrale quando era vescovo Carlo Maranta (vescovo dal 1657 al 1665) e si trovava precisamente sotto l'arco maggiore e che segnava ed era in una posizione aerea. Al tempo di un altro vescovo, poi, Francesco Figueroa (dal 1685 al 1691), il crocefisso fu deposto da quella posizione e traslato nell'attuale cappella che era, però, della famiglia Campennì, che naturalmente aveva dato l'assenso, modificata, poi, in conseguenza dei lavori del 1927/1931. Fu proprio in quell'occasione che, per dare forme concrete ed esteriori al culto della Croce, si costituì una congrega di fratelli e sorelle. Noi del XX secolo avevamo ricevuto dal mondo passato in preziosa eredità un bellissimo Cristo di nera pittura, che gli dava un tono di austera singolarità, ed il nome di "Crocefisso nero". E avremmo avuto il buon diritto di ritenere che quello fosse stato sempre il suo colore, anche se nel 1922 Luigi Toraldo, quasi volesse anticipare i tempi, aveva detto che una indoratura sottostante alla nera pittura copriva quel sacro simulacro. Noi, quindi, avevamo creduto sempre che il color nero fosse stato quello originale, fino a quando nel 1979, da parte della sovrintendenza alle belle arti di Cosenza, non ci fu un restauro. Da questo restauro apparve uno splendido Cristo dorato, come oggi proprio lo vediamo e come aveva ritenuto Toraldo. Una volta ripulito da quella pittura che era un'incollante vernice nera che gli era stata spalmata nel XVII secolo forse per periodica manutenzione, quel Cristo, opera del XV o, al massimo, del XVI secolo, si è sempre ammirato nella sua interezza per certi suoi particolari anatomici: le carni così aride e tirate mettono quasi a nudo le vene nelle gambe e nelle braccia; le costole tanto sbalzate che sembrano a stento trattenute da una sottile fascia di carne; il volto, che mi colpisce, dolcemente inclinato in avanti sul fianco destro con ai lati ricciuti capelli abbandonati verso il petto, che esprime le grandi sofferenze che Cristo provò come uomo negli ultimi momenti della sua esistenza terrena, ma anche esprime la dolce rassegnazione dell'Agnello di Dio. Ecco, quindi, la simbiosi Uomo-Dio, l'umano che diventa divino, pur mantenendo entrambi gli aspetti. Tale è stato il miracolo dell'artista. Si può dire che in quel volto è magistralmente scolpita la simbiosi uomo-Dio con un tono talmente artistico che sublima tutta l'arte, c'è proprio come una elevazione, una sublimazione di quel capolavoro artistico. Chi ne fu l'autore? Non si conosce. Anche se c'è che fa somigliare il nostro crocefisso a quello di Benedetto da Maiano, che è venerato a Firenze nella chiesa di S. Maria Novella. C'è chi sostiene che esso appartiene alla scuola dei crocefissi lignei fioriti a Limoges, in Francia, nel '400, XV secolo. Arte e fede! Fede che ha ispirato l'artista ed ha fatto sgorgare l'arte. La fede l'ha ideato, l'arte l'ha generato, l'ha creato. Ecco cos'è quella bellissima opera d'arte che è il Crocefisso della Cattedrale di Tropea.

VIII

La Chiesa Cattedrale

   Completiamo l'analisi della Cattedrale raffigurandoci la struttura del Duomo: abbiamo tre navate, una centrale più larga delle due laterali; nella parete della navata laterale destra troviamo delle cappelle, nella parete della navata laterale sinistra non ce ne sono. Guardiamo la prima cappella a destra entrando: è della famiglia Galluppi, dove, da alcuni anni, si trovano le ceneri del filosofo Pasquale Galluppi che si trovavano a Poggioreale, a Napoli, nel recinto degli uomini illustri. Ora si trovano nella cappella di famiglia dove a destra entrando, troviamo il mausoleo voluto da Antonello Galluppi per i suoi cinque figli immaturamente morti (morirono prima i figli e poi il padre) che è del 1599; a sinistra entrando, quello eretto nel 1651, per volontà di Vittoria Galluppi, raccoglie i resti di suo marito Scattaretica e della figlia Caterina. Recentemente sono stato lì e ho fatto un accertamento per conto mio: mi ha colpito questa giovane donna, Caterina, che non sembra morta, sembra presa da un sonno sereno, con in mano un libro e con tanta serenità nel volto; mi ha colpito il suo abbigliamento femminile, sparso, non come di solito, lungo il corpo con dei dettagli, dei bottoncini, che mi hanno fatto pensare all'autore! C'è stata tanta oculatezza e, perché no, tanto senso artistico: in quella defunta si vede tanta serenità, appare una ragazza che sembra sorrida al visitatore. Forse al momento mi sono lasciato impressionare, ma penso che chiunque resterebbe colpito da questo non so che trasmesso dall'immagine. Di solito di fronte alla morte si resta un po' male, la serenità della ragazza invece si trasmette a chi la contempla. E questo è merito dell'artista che ha saputo cogliere l'immagine di serenità e bellezza. A fianco vi è la pietra tombale di Vincenzo Galluppi, figlio primogenito del filosofo Pasquale.

   Andando avanti nella navata, troviamo la cappella del Crocifisso, di cui si è già parlato. Più avanti c'è lo spazio che porta alla sagrestia dove vi è un sepolcro marmoreo del 1530 di autore ignoto. C'è chi lo attribuisce al Gagini e al Denova, di Palermo (1478/1536). Sono due figure di giovani della famiglia Gazetta che tornano nel segno di una grande serenità in netto contrasto con quanto è detto sotto che è proprio il dolore espresso dai congiunti, ma soprattutto il dolore espresso dal padre. Quindi, da un lato il padre che è triste, è straziato per la morte di quei due giovani figli, dall'altro i figli che dormono un sonno sereno, quello della morte.

   Uscendo dalla chiesa, dall'uscita nella navata destra, vi è un portale quattrocentesco su cui è incastrata una Madonna in marmo, molto paffuta: è il frutto di un'arte  popolare, anzi direi artigianale. Non è  comunque da buttare via perché è sempre un segno di quella che è stata la struttura dell'edificio nei secoli scorsi.

   Ritornando nella navata destra, alla fine c'è la cappella del Sacramento sulla quale esiste una storia: il 20 giugno 1556, i sindaci Tiberio Fazzari e Giuseppe Vulcano (c'erano due sindaci a Tropea, uno dei nobili e l'altro degli onorati), recatisi con altri cittadini dal vescovo Giovanni Matteo De Luca, ottennero la facoltà di costruire nella cattedrale a proprie spese una particolare cappella da dedicarsi al SS. Sacramento ed anche alla Patrona S. Domenica. Quella che era la sala capitolare, dove cioè si riuniva il capitolo della cattedrale (canonici, mansionari, il complesso dei sacerdoti) fu scelta come ricovero da dare. Passò del tempo prima che i lavori venissero cominciati, né furono condotti speditamente tanto che la loro conclusione si ebbe intorno al 1626, quando amministrava la sede vescovile, come vicario apostolico dopo la morte del vescovo Fabrizio Caracciolo Pasquini, mons. Sebastani Militino, il quale, deceduto nel 1631, per sua volontà, fu sepolto in quella medesima cattedrale. Questa cappella, a forma di croce greca, fu nel 1740 ingrandita dal vescovo Gennaro Guglielmini che la volle fare ad imitazione di quella di S. Gennaro a Napoli per lo stile architettonico. Successivamente il Vescovo Vaccari fece costruire in marmi l'altare di S. Domenica e volle che quello del SS. Sacramento avesse una più onorevole disposizione. La cappella per la sua forma barocca oggi è un corpo a sé stante; contrasta fortemente con quella che è la struttura della cattedrale, non soltanto per quanto riguarda la forma, ma anche per quanto riguarda il materiale. Nella cattedrale abbiamo la pietra morta, nella cappella abbiamo altro materiale. E', quindi, in netto contrasto con la severità di linee del resto del sacro edificio. C'è l'ampollosità del barocco nella cappella, c'è severità di linee nella cattedrale. Dal punto di vista dei beni culturali che cosa c'è in quella cappella? Ci sono delle semilunette ed anche quattro pennacchi. Sono tele settecentesche di scuola grimaldea.

   Andando oltre, arriviamo in fondo alla navata dove, sull'altare, c'è la Madonna del Popolo, una statua in marmo di fra' Giovanni Agnolo da Montorsoli, collaboratore di Michelangelo, scolpita nel 1555. A titolo di curiosità dico che il Montorsoli è autore di quell'artistica fontana che si trova in piazza Duomo a Messina.

   Nella navata ventrale troviamo il pulpito del '700 in marmo policromo che è un segno della vecchia cattedrale. Fu fatto costruire dal vescovo Monforte, che, rifatta la cattedrale, la consacrò nel 1789. Sapete bene quanti rifacimenti ha subito la cattedrale! In questo pulpito, dalla fine del '700, è ricomposto un quattrocentesco presepe con la vita e gli usi dei pastori.

   Nell'altare maggiore troviamo, custodito in una cornice d'argento con due sportelli pure d'argento e con bassorilievi, il quadro della Madonna di Romania, la famosa pala. Trattasi di una tavola bizantina che nel corso del tempo ha subito vari rifacimenti per cui non è facile stabilire una sua precisa datazione. Il sovrintendente mi diceva qualche anno fa che era del XIV secolo, ma io avevo ribattuto facendo presente quello che noi tropeani conosciamo, la storia, la leggenda, ma lui è rimasto di quell'idea. Comunque, è tradizione che si tratti di un quadro proveniente dall'oriente, all'epoca dell'iconoclastia voluta dall'imperatore Leone III Isaurico nell'VIII secolo. Nella navata sinistra sono fissate due lunette in marmo: una in basso, l'altra più in là con al centro la porta d'uscita laterale. Contengono uno un angelo annunziante, l'altro una Madonna Annunziata. Messi insieme rappresentano l'annunciazione. Sono di epoca rinascimentale e di un certo pregio stilistico (c'è chi le attribuisce al Gagini). Al di sopra della porta al centro della parete sinistra, vi è la scultura della resurrezione; l'artista è di epoca sconosciuta, anche se c'è qualcuno che lo attribuisce ancora al Gagini. Il portale esterno è del '700 ed è un'altra pagina della vecchia cattedrale. Voglio precisare che, da alcuni anni, quando si fa un restauro di un edificio non si butta giù tutto, si lasciano cose importanti al fine di dimostrare quelle che sono state le evoluzioni, i rifacimenti subiti da queste strutture. Nella cattedrale rimangono appunto il portale laterale ed anche il campanile. Nell'abside, all'interno, alla fine della navata sinistra, sull'altare vi è un ciborio in marmo del '400 di scuola toscana. E' alto 128 cm e largo 65 cm e presenta alcuni quadri: al centro della sua base angolare si rileva uno stemma nobiliare concluso da una mitria vescovile, è lo stemma della famiglia Balbo della Toscana. Più su, quattro angeli, due per parte, stanno a fianco di una portella o porticina che sostiene un calice con un'ostia consacrata. Più in alto, ancora nell'architrave, è inciso in latino ed in greco l'angelico saluto, ma si legge poco. L'ultimo quadro presenta a mezzo busto la figura del Padre Eterno con ai lati due teste di angeli. La donazione di questa preziosa opera viene attribuita al Vescovo Pietro Balbo, toscano, vescovo di Tropea dal 1461 al 1479 e gli viene attribuito proprio perché, alla sua base, c'è il suo stemma nobiliare. Pietro Balbo era molto colto, fu grande latinista e grecista, ecco perché quelle iscrizioni: per l'uso della lingua latina e della lingua greca (che soltanto uno studioso, un grecista come lui poteva volere e gradire) noi pensiamo che questo sia stato proprio un suo dono. Su questo ciborio è poggiata una Madonna, detta della Libertà, di cui abbiamo parlato nella storia della Chiesa del Rosario a proposito della vendita arbitraria di Tropea nel 1612 al principe Ruffo di Calabria. Questa Madonna è raffigurata come chi avvolge il manto per raccogliere e proteggere gli uomini.

   Dopo aver analizzato quello che c'è all'interno, parliamo della cattedrale in generale: essa sorge su un'area cimiteriale; lo dimostra il fatto che nel 1980, in conseguenza di alcuni scavi, sono venute alla luce diverse tombe in largo Duomo, del IV, V secolo d. C. Nel 1905 il vescovo Taccone Gallucci aveva detto: "La zona che va da Palazzo Toraldo al Duomo è tutta un cimitero cristiano". Non si era sbagliato perché nel 1980 le tombe sono state effettivamente scoperte, ma già nel 1904 nel Vico Scrugli, nel momento in cui si stava scavando per porre le fondamenta di un muro di sostegno al Palazzo Scrugli, sono stati scoperti ad un metro dalla superficie sei tombe l'una sovrapposta all'altra.

   649 d. C., un certo Giovanni, vescovo di Tropea, partecipò al concilio indetto dal papa Martino I, futuro S. Martino; da ciò noi possiamo dire che Tropea nel 649 ebbe il primo vescovo. Ogni vescovo ha la sua chiesa dove pone la sua cattedra (da qui il nome) e la prima cattedrale a Tropea fu il tempio ex di Marte, poi S. Giorgio, fino a quando non fu costruita la chiesa di S. Nicola, la cattolica, tra il VII e l'VIII secolo e dopo di questa fu costruita l'attuale cattedrale nel XII secolo. Al sud abbiamo avuto i Normanni nel 1060, dopo che cacciarono i Bizantini e la loro dominazione è durata fino al 1194, quando ad essa si sostituì la dominazione sveva in maniera incruenta. Perché i normanni (= uomini del nord, della Scandinavia) si atteggiavano a fiancheggiatori della chiesa e costruirono chiese e cattedrali? Perché era un'opportunità politica. La chiesa nel 1059 aveva dato a loro l'investitura di tutta l'Italia meridionale, occupata, appunto, dai Normanni con il beneplacito del papa. Roberto il Guiscardo (astuto e furbacchione) poteva mai dimenticare questa benevolenza nei suoi confronti? Si diede, allora, a costruire chiese, basiliche, cattedrali, ma non solo, restaurò il rito latino che era stato estromesso dai Bizantini; ma non solo, restituì alla giurisdizione di Roma quei territori che erano caduti in mano al patriarcato di Costantinopoli, come aveva voluto l'imperatore Leone Isaurico nel VII secolo. Abbiamo avuto il rito greco qui a Tropea e l'ultimo vescovo greco (1066) fu un certo Kalokiglio ed è rimasto fino all'ultimo perché, mentre gli altri che non si volevano assoggettare a quella che era la nuova realtà normanna, latina, se ne erano andati o erano stati cacciati, il vescovo Kalokiglio si adeguò a questa nuova realtà e continuò il suo mandato ricevendo anche onori da parte di Roberto il Guiscardo. La cattedrale è, quindi, del XII secolo e abbiamo un dato di fatto, una data certa che ci dice questo. Ci fu uno storico tropeano dell'800 che aveva detto che la cattedrale era sorta nel XIV/XV secolo solo perché, in quel periodo, si parla di una consacrazione, che effettivamente c'è stata, ma per un rifacimento della chiesa fatto in conseguenza dei danni provocati dal terremoto.

   Cosa avvenne una volta costruita la chiesa? I re normanni veneravano la Vergine sotto il titolo di Maria Assunta in cielo, la cui effigie era riprodotta nelle loro bandiere. La cattedrale di Tropea, come altre, il 20 novembre del 1163 fu consacrata a Maria Assunta. La consacrazione, quindi, nel 1163, ma non per una benedizione bensì per la dedica della chiesa a Maria Assunta in cielo, il cui quadro fu custodito sull'altare maggiore fino al marzo 1638, sostituito, poi, con quello della Madonna di Romania.

   C'è una lapide in Via Roma che ricorda proprio il terribile terremoto del 1638, quando il vescovo Cordova in sogni premonitori aveva saputo che ci sarebbe stato, come poi fu, tanto che fece svolgere una processione di penitenza. Quando la processione arrivò là dove c'è l'epigrafe, si avvertirono delle scosse, caddero dei cornicioni, ci furono palazzi lesionati, però non ci furono né danno né vittime. Fino a qualche anno fa, quando la processione della Madonna di Romania arrivava a quel punto, si intonava il "Te Deum" di ringraziamento, in ricordo di quel fatto spettacolare avvenuto nel 1638.

   La cattedrale, dicevo, sorge in un'area cimiteriale e, da come è emerso durante i lavori di restauro, la parte dell'abside poggia su un muro di un vecchio sacello bizantino. Si trattava di una chiesetta che di solito si faceva sorgere in un luogo riservato ai defunti per i tradizionali seppellimenti. (Ricordate, però, il tempio d'Ercole? Dato che si parlava di un tempio molto conosciuto tanto che i Romani venivano qui per sapere l'esito delle battaglie, il tempio d'Ercole poteva essere proprio lì! E' una mia illazione!!!) Costruita la chiesa con l'ausilio delle maestranza locali, essa presentava l'aspetto di una basilica di tipo latino, a tre navate absidate, con transetto (= navata che passa lungo gli archi in senso trasversale). Le sue linee severe, il suo nudo ambiente creava un'armonia, un'atmosfera di misticismo. Era in piena sintonia con la schiettezza della fede cristiana. Nel corso dei secoli quel tempio subì vari rifacimenti ad opera di tutti i vescovi. Sembrava che volessero lasciare un ricordo di sé, per abbellire sempre più e sempre meglio, per ingrandire ancor di più quel sacro tempio. Furono tali i rifacimenti che assunse un aspetto molto, ma molto diverso: dalla severità, dalla semplicità delle linee assunse un aspetto tipicamente barocco, come oggi è dimostrato dalla cappella del SS. Sacramento di cui abbiamo parlato. Dopo tutti questi lavori che si sono perpetuati nel corso dei secoli e che avevano completamente travisato il suo primitivo interno, la cattedrale si presentava nel 1927 con una forma basilicale a tre navate sorretta da pilastri avvolti di marmi colorati, con decorazioni alle pareti, al soffitto, con lavori di stucco nei capitelli e nei cornicioni, vero barocco. Situati in cappellette, altari ed altarini adornati di sgargianti palmi, di tabernacoli e simulacri di carta pesta si alternavano a sproporzionati confessionali nelle fiancate del tempio che era illuminato da molti lampadari. I locali cultori di storia patria e di arte sacra, conoscendo la storia, le origini della cattedrale e di ciò che era stata nel corso dei secoli, indubbiamente, per preparare una coscienza del popolo, incominciarono ad agitare la questione in termini culturali all'inizio del XX secolo, aspettando il momento opportuno. E questo arrivò: era vescovo Luigi Cribellati che, cavalcando un bianco cavallo, come da antica tradizione, il pomeriggio dell'8 novembre 1921 aveva fatto il suo ingresso solenne in Tropea. Giovane, anzi il più giovane dei vescovi d'Italia, contando appena 36 anni di età all'atto della sua consacrazione episcopale, affrontò con interesse il problema del restauro per la soluzione del quale, pur avendo messo le ali al progetto, gli si impediva di spiccare il volo dal momento che ci volevano i mezzi finanziari e, soprattutto, perché il vescovo doveva dar conto all'opinione pubblica, alla gente abituata, affezionata a quel tipo di chiesa. Era un tempio a cui ci si era abituati da secoli. La sorte dei marmi, degli stucchi, delle dorature, di ciò che apparteneva alla cattedrale fu decisa da questo vescovo. Affascinato dalla visione della futura bellezza del tempio, scelse con la sua energica volontà i tanti dilemmi che lo avevano agitato e diede inizio ai lavori. Lui, però, voleva una prova: un giorno, nel momento in cui si scalpellavano i muri per un lavoro di consolidamento, si intravide quello che era lo scheletro della primitiva cattedrale e fu questo fatto, questa visione, questo scheletro che si è presentato alla sua fantasia, che lo spinse a promuovere il restauro. Lavori che durarono dal 1927 al 1931, che si rivelarono duri per dirigenti e maestranze delle quali una buona parte, specializzata, era lombarda, milanese soprattutto. Dopo ingenti sacrifici finanziari, finalmente la cattedrale nel 1931 tornò ad essere sostanzialmente come era alle sue origini. E' risultato durante quei lavori di restauro che nei secoli XII e XIII, come dicevo quando ho parlato delle statue di S. Pietro e di S. Paolo nel porticato svevo, che la cattedrale non era isolata, ma attaccata da una loggia porticata. Al di sopra di quegli archi a sesto acuto c'era una loggia e questo fatto, l'esistenza di questo porticato con loggia, si riferiva al periodo della dominazione sveva al XII secolo, pertanto sono da considerarsi un'aggiunta alla cattedrale. Nel 1932 Edoardo Galli scriveva che tale porticato rappresenta in Calabria un rarissimo, anzi unico esempio ed insieme un complemento di squisita bellezza ed armonia per la cattedrale tornata a nuova vita. Nella cattedrale restaurata non tutto è autentico, è chiaro, però è originaria la parete esterna del fianco sinistro con pseudo finestre in basso, mentre sono autentiche quelle che stanno in alto arcuate con rilievi di conci calcarei alternati con mattoni gotti e pietre di schiuma lavica per formare un gioco di colori proprio dei normanni. Si alternano mattoni neri e rossastri, poiché, dopo la demurazione, la parete era un sottile strato di muratura e fu indispensabile ispessirla all'interno della chiesa. Come pagina testimoniale delle tante vicende vissute dalla fabbrica nel corso del tempo fu lasciata la settecentesca porta secondaria che era stata ricavata al centro della medesima parete. Gli archi in tufo furono smontati, integrati da pezzi mancanti, rinforzati internamente e quindi ricomposti. Come gli archi anche i pilastri all'interno della chiesa sono in pietra autentica tratta dalla stessa cava che veniva sfruttata al tempo dei normanni e degli svevi, sita sotto Drapia lungo il torrente La Grazia. La cattedrale fu accorciata: una volta la cattedrale barocca arrivava fin dove c'è il giardinetto dietro, proprio fin là. Restaurandola, hanno riportato i paletti dove erano stati posti dai normanni, per cui quello spazio che è risultato tra l'abside e la ringhiera che c'è adesso è stato adibito a giardinetto. Là nel largo della villetta del duomo c'era la cosiddetta Munizione, dove dal '500 in poi c'era un cannone e che fu demolita in conseguenza dei lavori di restauro della cattedrale. Nel portale principale fu integrato un occhio cinquecentesco, al di sopra della porta principale, in pietra. Poi si trattò di dare una nuova impostazione al tetto che fu fatto non in legno, come era precedentemente. Per quanto riguarda il mattonato, adesso ci sono quei mattoni cotti, ma fino a pochi anni fa c'erano degli obbrobri che erano stati messi lì per essere come in accordo col colore del tetto. Oltre alla cappella del SS. Sacramento, un altro superstite di un'epoca passata che si identificava nel complesso architettonico demolito è il campanile che ancora conserva le linee di restauro voluto ed effettuato dal vescovo Vaccari nella seconda metà dell'800. Anche per il campanile era prevista una sostanziale trasformazione. Rifatto con la stessa pietra della cattedrale, doveva essere prolungato a vertice di piramide. E' capitato nelle mie mani il progetto di allora: sarebbe stato bello, molto bello soprattutto perché svettava a punta acuta. Per l'esaurimento dei fondi finanziari la realizzazione del progetto fu sospesa per sempre perché si vuole lasciare come pagine del passato tutto ciò che è riuscito a sopravvivere. Si vogliono i segni di quello che fu e, quindi, è rimasto il campanile ed è rimasta la porta laterale. Nel complesso noi abbiamo la nostra cattedrale di stile normanno con alcuni elementi di stile arabo.

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